"Tattoo", di Robert Schwenke

La pellicola di Schwenke non mostra segni particolari di trattamento epidermico anche se sembra non temere l'incontro con il lato più oscuro della carne. Resta difficile trovare in tale dicotomia un'ipotesi di sintesi stimolante.

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Il corpo-cinema e il cinema-corpo, ancora, di nuovo. A tormentarci con le sue mutilazioni, con sezioni di mondo ontologicamente recise. O con mutazioni cercate, mancate, incontrollate di film imprigionati. Pronti un giorno ad esplodere, forse. O eternamente implosi. Sembra paradossale che un film come il teutonico Tattoo, offrendo naturalmente la sponda ad un intervento deciso sulla pelle/pellicola, manchi clamorosamente l'intento. Come se un bisturi potesse essere solo evocato da un racconto e non dolorosamente innestato tra le interlinee dei frames, anche dentro i frames stessi. Come se l'involucro di una sembianza dovesse per forza di cose rimanere confezione, mimesi di un modello già conformato ed inerte perché abusato (Seven e il poliziesco americano degli anni '70, se non Derrick, nella questione). Sarebbe servito continuare sulla falsariga dell'incipit, uno dei migliori short di sempre, puro ritmo postnoir della condanna, con una donna nuda e sanguinante uscita dal nulla, barcollante in una strada dove troverà la morte investita da un mezzo pesante. Carbonizzata, già spellata (il tatuaggio asportatole), già modificata (la lingua biforcuta). E' tutto lì, in quella "body modification" che si farà presto mera istoriazione di scene. Notti dal color grigio-blu sgranato via via sempre più legate ad un nesso narrativo (escludendo la smaccata casualità di alcuni incontri) e sempre più de-fascinate di mistero. In una tela di deja-vù ruffiani, i rave parties, l'extasy, il rapporto padre-figlio tra il giovane poliziotto, Marc, che percorre la sua parabola infernale, e Minsk, il detective rude e solitario sulle tracce della figlia scomparsa. Oltre ovviamente al collezionismo macabro del serial-killer, curiosamente dedicato a brandelli di pelle tatuata, preziosi ornamenti orientali da rivendere su Internet. Schwentke, giovane regista proveniente dalla Tv, qui alla sua opera prima, ha il merito di non arretrare dinanzi alla macelleria, all'orrore che incalza. Senza gratuiti compiacimenti ci mostra la carne, quale che essa sia. I nei di un volto o una sala di tatuaggi destinati a bruciare per purificarsi. Sarà forse questo unico elemento di disturbo a rendere il film meno riconoscibile, meno indifferente, meno oggetto impossibile di amore/odio. E magari opererà il miracolo di unire per un attimo falchi e polli, fringuelli e colombe della critica nostrana, tutti coloro che per esprimersi hanno bisogno di un tatuaggio indelebile che li rassicuri. Finti naufraghi del pensiero nel mare del conformismo che da decenni bagna la costa dello Stivale. Dal fianco destro e dal sinistro.

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Titolo originale: Tattoo


Regia: Robert Schwentke


Direttore della fotografia: Jan Fehse


Montaggio: Peter Przygodda


Musiche: Martin Todsharow


Scenografia: Josef Sanktjohanser


Costumi: Peri de Bragança


Interpreti: August Diehl (Marc Schrader), Christian Redl (Detective Minks), Nadeshda Brennicke (Maya Kroner), Ilknur Bahadir (Meltem), Joe Bausch (Gunzel), Ingo Naujoks (Stefan Kreiner), Christian Redl (Minks), Fatih Cevikkollu (Dix)


Produzione: Jan Hinter, Roman Kuhn per Lounge Entertainment


Produzione: Lounge Entertainment in co-produzione con Studiocanal Production e B.A. Production


Distribuzione: Keyfilms


Durata: 107'


Origine: Francia/Germania, 2002

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