Teki Cometh, di Daihachi Yoshida
Con grande lucidità, si posiziona al confine tra lo stato di coscienza e il sogno, per raccontare la quotidianità di un uomo la cui vita ha perso i significati e i ritmi di un tempo. Far East 2025

A Daihachi Yoshida bastano pochi caratteri, inseriti in una delle più classiche (e banali) mail di phishing, per sintetizzare tutti i discorsi che vuole proporre con Teki Cometh, e traghettare il racconto verso una dimensione onirico-paranoica. Il testo che il protagonista, un ex professore di letteratura francese, arriva qui a leggere mentre naviga inconsapevolmente su internet è tanto lapidario quanto assurdo, al punto che i suoi significati, di per sé indecodificabili, possono essere rivelati solo se chi li riceve (compreso lo spettatore) si muove in uno stato allucinatorio: “il nemico è atterrato”. Questa frase, che in giapponese richiama il titolo stesso del film, determina non solo il passaggio della narrazione da una cornice puramente realistica, fondata sulla quotidianità di un uomo immerso fino al collo nella sua immobile routine, alle derive allucinatorie: ma fotografa le (in)visibili fratture che si stanno progressivamente manifestando nella psiche dell’accademico, impossibilitato sempre più a porre un freno a quei deliri iperbolici che hanno contribuito a compromettere le sue facoltà coscienziali, nonché la sua capacità (o volontà?) di distinguere il falso dal vero: ciò che appartiene al piano del reale dagli elementi o segni che si iscrivono in una cornice prettamente onirica.
Ancor prima che gli ideogrammi che compongono la frase “Teki Cometh” si manifestino sullo schermo del computer del protagonista, determinando nel racconto una transizione non solo metaforica, ma anche estetica e narrativa, la condizione esistenziale dell’uomo sembra essere già sul punto di collassare. Gisuke Watanabe (Kyōzō Nagatsuka) è in pensione forzata da ormai una decade, e l’assenza di entrate periodiche non fa che enfatizzare le sue peculiari idiosincrasie. Ogni giorno valuta con precisione le parole che dovrà inserire nel suo testamento, e le ristrettezze economiche con cui è costretto a convivere lo portano a condurre uno stile di vita ordinario e privo di emozioni, da ripetere sistematicamente quasi fosse un mantra. Le uniche “fughe” dal tedio della quotidianità le trova in alcuni incontri saltuari con una sua ex studentessa di nome Yasuko (Kumi Takiuchi), con una giovane laureanda in letteratura francese (Yuumi Kawai) e in particolare nei “vividissimi” sogni che tempestano ossessivamente la sua mente, nonché le immagini del film. Ed è proprio nella dimensione onirica che l’ex professore mette a nudo sé stesso: tanto che Yoshida, con grande acume e lucidità, posiziona il suo sguardo nel punto di contatto tra lo stato di coscienza del protagonista e il sogno. Ovvero su quel labile confine, che una volta scavalcato, porterà il racconto ad esibire i simboli, i linguaggi e la segnaletica iconografica del paranoid thriller.
Da questo punto di vista, seppur il nono film di Yoshida strizzi l’occhio ai deliri lynchiani di Inland Empire, o citi esplicitamente l’abisso-digitale in cui si muovevano le anime solitarie di Kairo – tra i riferimenti ne spunta anche uno su Tetsuo, relativo alle fobie sessuali di Watanabe – Teki Cometh non si limita mai a replicare stancamente le soluzioni proposte dalle memorabili opere a cui si ispira, per dischiudere in termini perlopiù autonomi e personali il sentiero verso la paranoia da parte dell’accademico. E lo fa innervando le varie incursioni oniriche del protagonista di connotazioni puramente esistenziali, specifiche della condizione vissuta quotidianamente dall’accademico. Watanabe, oltre a trascorrere le giornate all’insegna di un’avvilente routine, ha perso infatti la moglie da ormai 20 anni. Una concatenazione di eventi che ha reso meno significativa ed esaltante la sua quotidianità, arrivata adesso ad un punto di rottura critico. Ed è a partire da queste inferenze che il cineasta giapponese decide così di abbattere il confine tra il sogno e la realtà, annullandone ogni marcatore di differenza, per raccontare in maniera assolutamente radicale le crisi e gli struggimenti di un uomo la cui vita ha perduto i significati e i ritmi di un tempo. Senza mai affrancare la narrazione da uno spirito deliberatamente grottesco: ovvero l’unico registro che consente ad un racconto così inevitabilmente incentrato sulle assurdità dell’esistenza, di dare vita, attraverso le sue surreali immagini, al ritratto di un uomo in preda ad un (meraviglioso ed esilarante) delirio paranoico.