Tekken: Bloodline, di Yoshikazu Miyao

L’anime sfrutta la prossimità grafica al videoludico come via di interconnessione naturale tra i due sistemi mediali. Funziona, ma risulta accessibile ai soli fan/utenti della celebre saga. Su Netflix

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Tekken: Bloodline conferma quello che in molti avevano supposto già da tempo: ovvero che i codici e i linguaggi specifici della saga videoludica di Tekken si prestano alla sola traduzione animata. Dopo anni di adattamenti claudicanti, il cinema live-action non è stato in grado (o non ha avuto la possibilità) di ri-portare nello spazio della realtà/finzione filmica la formula alla base dei celebri videogames, disperdendo così quello stesso investimento emotivo di base che avrebbero dovuto naturalmente attivare. Lontana allora dall'(ab)uso di effetti digitali o da stilemi coreografici banalmente spettacolarizzanti, l’animazione tradizionale (innervata di cgi) permette ora di riprodurre con fedeltà i mondi infografici della saga, sfruttando la prossimità grafica al videoludico come via di interconnessione immaginaria tra due sistemi.

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È attraverso la simulazione estetica dei combattimenti, ovvero dei codici paradigmatici su cui Tekken ha costruito l’appagamento interattivo dei suoi numerosi utenti/fedeli, che l’anime dialoga con il prodotto originario, e insieme ne recupera le referenze emotive. In Tekken: Bloodline ogni gesto, movimento o colpo dei personaggi/combattenti, proprio perché riflette pedissequamente la prossemica videoludica, sembra aprirsi ad un livello d’interpretazione ulteriore, in cui l’esperienza passiva dello spettatore converge idealmente con quella interattiva del videogiocatore. Negli effetti grafici, come nei linguaggi di regia, le combinazioni acrobatiche di Jin a cui assistiamo sullo schermo, ci ricordano immediatamente quelle del personaggio nella spazio bidimensionale (e interattivo) del testo originale. Decretando così quel travaso inter-mediale di codici, che il cinema live-action non ha avuto la capacità di materializzare.

Ma la connessione tra i due immaginari non si arresta al solo livello estetico. È, forse, dal punto di vista tematico-narrativo che Tekken: Bloodline entra propriamente in relazione con i suoi appassionati, puntando tutto su quegli intrecci che hanno costituito il cuore diegetico della saga, la spina dorsale dell’intero franchise: ovvero sulle trame di Tekken 3. La storia, di fatto, è la stessa dell’iconico gioco: Jin Kazama è un ragazzo schivo e introverso, che vive in rapporto simbiotico con la madre, insieme a cui si allena per diventare un formidabile combattente. Ma un demone dalla forza bruta di nome Ogre, per motivi inizialmente sconosciuti, uccide brutalmente la donna, istradando Jin su quel cammino di vendetta, che lo porterà a partecipare al torneo di arti marziali organizzato dal nonno, e a scoprire così i segreti sulla sua oscura genealogia. E in linea con il suo omologo videoludico, l’anime viaggia su più livelli, veicolando il cuore del racconto (cioè il dissidio identitario di Jin) sia dal punto di vista narrativo, che da quello strettamente iconografico. La volontà del protagonista di seguire la “via pacifista dei Kazama” – e quindi di combattere perlopiù con gli arti inferiori – si scontra con l’aggressività combattiva dei “padri Mishima” sintetizzata nell’efferatezza dei pugni. Un conflitto che dà incisività al racconto, e che al tempo stesso richiama nei videogiocatori/spettatori quel sostrato emotivo necessario per la ri-costruzione dei processi di engagement.

 

La propensione di Tekken: Bloodline ad utilizzare i corpi-memoria dei personaggi come centro emozionale della storia, deve però fare i conti con i limiti produttivi della serie. La durata limitata del racconto non concede molto respiro alla narrazione, con il rischio di depotenziare quella stessa (auto)referenzialità su cui l’anime costruisce (e anche bene) l’interazione comunicativa tra media diversi. Ma rispetto ai suoi stucchevoli predecessori, la traslazione dei codici da uno spazio mediale all’altro funziona qui con naturalezza, portando il racconto a centrare quell’obiettivo fallito dai precedenti adattamenti: ovvero far convergere finalmente l’identità del testo con le corporeità iconiche di personaggi (divenuti ormai) transmediali.

Titolo originale: id.
Regia: Yoshikazu Miyao
Voci: Isshin Chiba, Mamiko Noto, Taiten Kusunoki, Masanori Shinohara, Toshiyuki Morikawa, Maaya Sakamoto, Hōchū Ōtsuka, Seiko Yoshida, Yumi Tōma, Hidenari Ugaki, Yasuhiro Kikuchi, Masayuki Hirai, Mariya Ise
Distribuzione: Netflix
Durata: 6 episodi da 22-29′
Origine: Giappone, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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Il voto dei lettori
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