Terrifier, di Damien Leone
Il secondo lungometraggio di Damien Leone riporta in vita la figura del suo Art the clown, il pagliaccio sadico dei suoi corti e del suo film d’esordio. Dal FIPILI di Livorno
Perché Terrifier? Abbiamo bisogno di un altro clown assassino? Il secondo lungometraggio di Damien Leone, presentato in Italia al FIPILI Horror Festival di Livorno, aggiunge nuova carne a quello che è diventato un genere a parte, dove la propria originalità e ragione di esistere si trova paradossalmente nello specchiarsi nei canoni del fenomeno di appartenenza. L’immaginario horror clownesco continua a espandersi e prendere nuove forme, tra cui quella proposta da Leone, mentre torna ad aprirsi alla domanda basilare, forse mai risolta del tutto: perché abbiamo paura dei clown?
Terrifier prova a dare la sua risposta, forte dell’esperienza del regista nell’industria degli effetti speciali, dove Leone ha lavorato per anni prima di dare vita al suo pagliaccio sadico e sorridente Art the clown, già apparso nei corti low-budget The 9th Circle (2008) e Terrifier (2011), poi protagonista del primo lungometraggio di Leone, All Hallow’s Eve (2013). Art qui diventa il re assoluto di un regno parallelo, un luogo dove non esistono altri clown, dove nessuno conosce la storia oppure la vera natura del pagliaccio che sorride, dove Art the clown non è una minaccia evidente o un pericolo avvertito ma la promessa di una sadica e sanguinaria sorpresa.
Dietro il trucco bianco-rosso e la storia horror classica, con due ragazze sole e perse in mezzo al nulla, che attraggono il pericolo senza consapevolezza e fanno tutte le cose che non dovrebbero fare, Terrifier nasconde una volontà trasgressiva e torna al punto embrionale, alla bozza di un racconto che potrebbe essere qualunque storia di clown e il rispettivo dietro le quinte, nel garage di una casa vuota, tra scatole di cartone, pezzi di macchine vecchie, roba dimenticata. Sembra che Leone ragioni su questo ritorno al magazzino degli attrezzi non come una dichiarazione di principi o una proposta forzata, ma come una necessità cinematografica. Quella di raccontare una storia semplice ma spaventosa, lineare ma sporca e inquietante, comunque piena di eccessi. Un cinema che galleggia tra la volontà di serie A e la consapevolezza di essere B. E che dopo essersi mosso in maniera ondivaga, scopre la propria forza non tanto nell’appartenere a un’industria o all’altra ma nel mantenersi sospesi in una zona oscura di entrambi.
Se Terrifier è destinato a crescere sotto la prospettiva del tempo e diventare parte dei classici del cinema gore o estremo, certamente non si può ancora dire. Forse Art the clown rimarrà in qualche posto dell’immaginario collettivo oppure si diluirà tra le figure in espansione di pagliacci che sorridono per poi trasformarsi in incubi. Ma sicuramente ci avvicina, ad un livello più viscerale e primitivo che razionale, a risolvere l’inquietudine primaria: perché abbiamo paura dei clown.