Terry Gilliam: Con i miei film cerco di incoraggiare la gente a essere più; folle

Regista visionario per eccellenza Terry Gilliam (ospite a Bologna della 1° edizione del Future Film Festival) ha spiegato in questa intervista le ragioni che lo hanno spinto ad adattare per il grande schermo Fear and Loathing in Las Vegas, romanzo cult di Hunter S. Thompson.

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a cura di Mario Gagliardotto

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Mi è sembrato che molti spettatori e molti critici, parlando di Paura e delirio a Las Vegas, abbiano focalizzato la loro attenzione sulla questione della droga …
Io non credo che il film riguardi in senso stretto la droga. Molti mi hanno chiesto se ho mai fatto esperienze con gli allucinogeni: il fatto è che io non sono mai stato un sostenitore degli stupefacenti, né tantomeno ho inteso esaltarli. Paura e delirio a Las Vegas non è un film sulla droga, ma sulla responsabilità individuale; la droga, nel film, è una metafora. Quello che più mi ha appassionato del romanzo di Hunter Thompson è lo stato mentale dei protagonisti: due personaggi che apparentemente si imbottiscono di sostanze stupefacenti per puro divertimento, ma che in realtà si stordiscono per la disperazione e la rabbia. Spingendosi oltre i limiti, Duke e Gonzo cercano in un certo senso di autopunirsi, mossi dalla consapevolezza che il mitico Sogno Americano di cui sono alla ricerca non esiste più e si è tramutato in un incubo tremendo. Las Vegas non è che il simbolo macroscopico di quel Sogno infranto, di tutte quelle speranze che sono state spazzate via alla fine degli anni Sessanta. Las Vegas rappresenta in pieno un’ America che ha assistito alla morte dell’utopia ed è stata stretta nella morsa del consumismo e del materialismo. Dopo il 1971 non è rimasto più nulla degli ideali di un’intera generazione mentre sono proliferati ipocrisia e conformismo.
Mi è capitato spesso di pensare che, al tempo in cui scrisse il libro, Hunter Thompson avrebbe potuto benissimo trovarsi in Vietnam come corrispondente di guerra ed essere costretto a sopportare la tensione derivante dai combattimenti e dal pericolo costante di essere colpito da bombe reali. Invece si ritrovò a fare il corrispondente sportivo, si recò a Las Vegas e decise di “bombardarsi” il cervello con la droga: in definitiva, dal punto di vista psicologico, si tratta dello stesso tipo di bombardamento. Thompson scelse volontariamente di fare quel tipo di esperienze, si mise sul “filo di un rasoio” e cercò di descrivere ciò che accadeva intorno a lui, realizzando così il suo anarchico e personalissimo reportage giornalistico. Era questo che mi affascinava: riprodurre fedelmente le esperienze psichedeliche di Thompson così come sono descritte nel suo romanzo. É come se avessi infilato delle macchine da presa nel corpo degli attori tentando di restituire in modo dettagliato e preciso quegli stati alterati della coscienza. Negli anni Sessanta gli sperimentatori di droghe erano alla ricerca di qualcosa, tentavano di aprire le famose “porte della percezione” per scoprire quale fosse la loro più intima realtà interiore. Oggi, invece, assumere stupefacenti non comporta più una ricerca, ma una fuga verso il Nulla. Inoltre, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, la droga dilaga indisturbata mascherandosi sotto forme che vengono accettate dalla società; è diventata anch’essa parte del consumismo di massa: penso al Prozac o a tutti quei farmaci che cercano di contenere le emozioni, di reprimerle, di renderle sicure.

Era dal tempo della sua pubblicazione, all’inizio degli anni Settanta, che si tentava senza successo di portare sullo schermo il romanzo di Thompson. Anche per lei è stato difficile confrontarsi con un testo così singolare e controverso? Che percorso ha seguito la stesura della sceneggiatura?
Quando lo script di Alex Cox mi arrivò tra le mani, un progetto a cui stavo lavorando era appena abortito. La sceneggiatura mi coinvolse e mi interessò a tal punto da farmi volare a Los Angeles per valutare le concrete possibilità di realizzare il film. Ma in un secondo momento mi resi conto che l’adattamento di Cox, se poteva funzionare per le prime trenta pagine – quelle che seguivano più fedelmente il libro e che infatti mi avevano maggiormente divertito – poi però si distaccava troppo dal romanzo di Thompson e ne smarriva il significato. Quindi io e Tony (Tony Grisoni, co-sceneggiatore di Fear and Loathing in Las Vegas) ci buttammo a capofitto nella lettura del libro, spinti dall’urgenza che imponeva la produzione: eravamo come “cannibali” che tentavano di assimilare in fretta e furia tutto quello che poteva servire per la nuova stesura. Si trattava di un’enorme responsabilità: rispettare lo spirito del romanzo, non tradire un testo da cui molte persone hanno tentato per più di venticinque anni di fare un film e non ci sono riuscite. Dopo un lavoro massacrante e pazzesco durato otto giorni, avevamo finalmente la nostra sceneggiatura. Io e Tony ci separammo e di notte rileggemmo ciò che avevamo scritto insieme. La mattina seguente ci telefonammo e la nostra reazione fu identica: “Merda! É davvero terribile!”. Solo dopo altri due giorni di riscrittura ininterrotta potemmo considerarci veramente felici e soddisfatti del lavoro compiuto. É stata un’impresa ardua, qualcosa di così “pericoloso” che mi auguro di non dover ripetere: mettere le mani su un testo notissimo e ricavarne una sceneggiatura che non deluda le aspettative di quanti lo hanno letto ed amato. Sicuramente tutte le persone che hanno letto Paura e disgusto a Las Vegas avranno la propria versione del film nella testa: spero che la nostra versione non si discosti troppo dalla loro!

Già ne L’esercito delle 12 scimmie lei aveva usato l’animazione computerizzata per creare alcuni animali; adesso se ne è avvalso nuovamente per Paura e delirio a Las Vegas: che rapporto ha con la tecnologia digitale?
La considero esclusivamente un mezzo per raggiungere un obiettivo determinato; quando, per esempio, si è trattato di “animare” la moquette di un hotel di Las Vegas, per riprodurre una fantasia psichedelica, non mi sono fatto alcuno scrupolo. Tuttavia il ruolo della tecnologia digitale deve essere limitato, subordinato alle esigenze del film e non deve distogliere l’attenzione o diventare l’assoluta protagonista. É facile che, utilizzandola a sproposito, si trasformi in un inutile giocattolo. Comunque, film come Toy Story e A Bug’s Life mi sono piaciuti. Credo che per quanto riguarda questo settore si possa dire che esso rispecchia quello che avviene a Hollywood: magari c’è gente tecnicamente preparatissima che però non sempre ha idee brillanti o idee nuove.

É stato difficile riuscire a rendere visivamente gli stati di coscienza alterati dei due protagonisti?
É stato tutto difficile: eravamo incalzati dai tempi strettissimi per portare a termine il film; praticamente abbiamo girato con l’acqua alla gola. Forse, comunque, la cosa più complessa da rendere è stata proprio la rappresentazione delle allucinazioni provocate dalle droghe. Inizialmente Nicola [Nicola Pecorini, direttore della fotografia] aveva preparato un piano dettagliatissimo di quali potessero essere le reazioni visive più appropriate ai diversi tipi di droga. Aveva elaborato una serie di parametri – inquadrature, colori, filtri, sfondi, ecc…- che si potessero applicare sistematicamente a ciascuno stato mentale. Ma quando abbiamo cominciato le riprese, abbiamo buttato all’aria tutti i nostri programmi; non c’è stato più tempo per guardarsi indietro o per avere dei ripensamenti; ci siamo semplicemente detti: “Dobbiamo sopravvivere momento per momento, proprio come i protagonisti del libro”. Poiché avevamo assorbito, non la droga [Gilliam sorride], ma quella che poteva essere l’essenza della reazione che essa induceva, abbiamo “improvvisato” scena per scena.

Lei ha sempre attribuito un ruolo molto importante alle scenografie: a maggior ragione per Paura e delirio a Las Vegas, dove gli ambienti spesso influiscono sulle percezioni dei protagonisti, avrà adottato delle soluzioni particolari…
Gli ambienti sono fondamentali nell’economia di un film, poiché vi si muovono i personaggi; è logico, quindi, che lo spazio stesso diventi un vero e proprio protagonista. Per questo film abbiamo creato con grande attenzione le suite degli alberghi in cui si fermano Duke e Gonzo, in modo da poter “giocare” più agevolmente con gli obiettivi: utilizzando il grandangolo o zoomando siamo riusciti a restituire determinate impressioni di claustrofobia e di agorafobia descritte nel romanzo.

É stato soddisfatto, una volta terminato il film, delle prestazioni di Johnny Depp e Benicio Del Toro?
L’interpretazione di Johnny è stata straordinaria. Sul set subiva una vera e propria metamorfosi: per assomigliare ad Hunter Thompson si rasava parzialmente la testa e si faceva applicare dei piccoli distanziatori dietro alle orecchie per farle sporgere in avanti. Ma la sua era più di una semplice somiglianza fisica; a forza di frequentare lo scrittore, era riuscito ad impadronirsi del suo linguaggio gestuale, della sua personalità. [Gilliam non si sbilancia, invece, su Benicio Del Toro, ma Nicola Pecorini afferma che l’attore, al contrario di Depp, è piuttosto egoista e quindi difficilmente gestibile da un punto di vista tecnico: “Benicio non aspettava altro che il suo primo piano. Inoltre aveva una capacità stupefacente: se la luce era da una parte, potevo star certo che lui si trovava dall’altra; per cui mi ritrovavo immancabilmente ad inseguirlo con una lampada in mano, tentando di illuminare i suoi occhi che, tra l’altro, erano la cosa più bella che gli fosse rimasta dopo essere ingrassato di circa diciotto chili”.].

Nella sua carriera di regista quali sono gli attori migliori che ha diretto?
Gli attori migliori con cui ho lavorato sono senz’altro Johnny Depp e Jeff Bridges; sono attori solidi e conoscono in modo eccezionale gli aspetti tecnici del loro mestiere: hanno una sorta di relazione viscerale con la macchina da presa, sanno esattamente ciò che sta inquadrando e sanno dove guardare al momento giusto. Un altro attore con cui mi sono trovato a mio agio è Robin Williams. É una gioia lavorare con lui perché, oltre ad essere un ottimo professionista, è anche una persona magnifica, “una creatura” assolutamente unica su questo pianeta: Darwin ne rimarrebbe molto affascinato! Sul set de La leggenda del Re Pescatore Jeff Bridges faceva da ancora: bloccava Robin evitando di fargli perdere il controllo.
Per quanto riguarda Bruce Willis, io sono arrivato al momento giusto per lui, perché stava cercando di dimostrare al mondo di essere un attore migliore di quanto non fosse considerato. Quando è venuto da me, gli ho detto di liberarsi di tutti gli orpelli da superstar, lui l’ha fatto. É stato molto umile e ha lavorato duramente.

Molti dei suoi film, da Le avventure del Barone di Munchausen a La leggenda del Re Pescatore, all’Esercito delle 12 scimmie, trattano della follia; ma nelle sue opere c’è una linea sottilissima, praticamente impercettibile, che separa la “normalità” dalla malattia mentale. Secondo lei esiste veramente la pazzia? Oppure siamo noi a spostare le nuvole con la nostra mente, come sostiene Parry (Robin Williams) ne La leggenda del Re Pescatore ?
É la società che decide cos’è la pazzia: essa stabilisce arbitrariamente se un tipo di pazzia va bene ed un altro tipo no. Io preferirei invece che si facesse una scelta individuale: ognuno dovrebbe essere libero di decidere cosa sia folle e cosa non lo sia. Noi tutti, singolarmente e quotidianamente, continuiamo a reinventare il mondo che ci circonda e a definire ciò che esso rappresenta per noi, ma se si superano anche di poco i confini immaginari tracciati dalla società, si viene immediatamente considerati matti; se invece ci si comporta in modo strano, non superando però quegli stessi confini, magari si diventa personaggi di successo. Io stesso cerco di spiegarmi com’è il mondo attraverso i miei film: per questo motivo non credo che essi possano essere considerati “fantastici” in senso stretto. Tutte le mie opere cercano di confrontarsi con la mia confusione personale su ciò che è reale e ciò che non lo è. Penso che i miei film rappresentino un perpetuo conflitto tra realtà e immaginazione, tra concretezza e fantasia, tra “normalità” e follia. Per trascorrere una vita davvero interessante e stimolante tutti gli uomini dovrebbero prendere atto di queste dualità, accettare serenamente la coesistenza di sensazioni opposte e non limitarsi a ciò che viene comunemente considerato “normale”. Credo anche che il modo in cui parliamo della follia sia eccessivamente semplicistico. Il mondo è un posto straordinario ed io con i miei film cerco di incoraggiare la gente a crearsi un proprio ruolo nella società, ma un ruolo originale e non imposto o prestabilito. Ognuno dovrebbe possedere una fantasia propria, un proprio mondo immaginario, ma purtroppo oggi accade esattamente il contrario: ci spingiamo sempre più velocemente verso un’abominevole omologazione; l’unica fonte di fantasia sembra essere costituita dagli spot televisivi, dai messaggi pubblicitari. Questa è la vera forma di pazzia, di alienazione: noi permettiamo che la televisione e la pubblicità si insinuino nelle nostre case, che ci controllino costantemente e che creino al nostro posto quella che dovrebbe essere la nostra più intima realtà interiore. Il nostro mondo privato e “fantastico”. I media detengono un potere incredibile: anche quando crediamo di essere al sicuro, lontani dalla loro portata, in realtà non lo siamo; loro sono sempre in agguato. Per questo io non guardo mai la televisione [Gilliam, pur di non girare spot pubblicitari che avrebbero limitato la sua libertà d’espressione, ha rifiutato cachet esorbitanti,]. In un certo senso, con i miei film io cerco di incoraggiare la gente ad essere più folle.

A proposito dello strapotere dei media e di una tecnologia che, invece di coadiuvare l’uomo nel suo lavoro, tende sempre più ad asservirlo e a controllarlo, uno scrittore che, sulle orme dei classici 1984 di Orwell e Brave New World di Huxley, sembra essere stato ossessionato dalla teoria del “Grande Fratello” è Philip K. Dick. Lei ha affermato tempo fa di voler realizzare una trasposizione cinematografica di un suo libro: sta ancora lavorando al progetto o lo ha accantonato?
Ho sempre desiderato fare un film da un romanzo di Philip Dick ma i miei progetti non sono mai andati troppo lontano. Dopo La Leggenda del Re Pescatore, io e Richard LaGravenese [sceneggiatore del film] volevamo realizzare un adattamento cinematografico di A Scanner Darkly [Scrutare nel buio – 1977], un libro veramente interessante: purtroppo non riuscimmo a trovare nessuno che volesse imbarcarsi assieme a noi in una simile impresa. In questi anni, molti registi hanno tentato di cimentarsi con l’universo di Dick ma i risultati sono stati davvero deludenti; penso a film come Total Recall o Blade Runner , che sono sÏ tratti dai romanzi di Dick ma che in realtà hanno poco o nulla da spartire con essi: ne costituiscono piuttosto delle versioni hollywoodiane, molto commerciali. Un film che invece mi è piaciuto molto e che ha saputo catturare splendidamente lo spirito e l’essenza delle opere di Dick, pur non ispirandosi ad esse, è The Truman Show: direi che si tratta di un film molto dickiano. Per quanto mi riguarda, sono ancora interessatissimo all’idea di realizzare un film tratto da Dick. Diciamo che ho gettato i semi e che la pianta non è ancora cresciuta: forse non è ancora giunta la primavera per Terry Gilliam e Philip K. Dick.

Lei è ottimista o pessimista sul destino del mondo? Nel prologo de Le avventure del Barone di Munchausen appare la scritta “L’Età della Ragione” e nello svolgimento del film si comprende chiaramente come lei metta alla berlina quell’epoca storica. In uno dei suoi scritti, Jung afferma che l’Illuminismo ha costituito un’illusione collettiva e che ha prodotto un’infinità di guerre e di morti. Lei è d’accordo con questa opinione?
Si, assolutamente. Ammiro molto Jung e credo che sia stato il più brillante psichiatra mai esistito: aveva una visione molto chiara del mondo ed una grande capacità di analisi storica. Io penso che il mondo sia caos e disordine: l’Età della Ragione ha preteso di razionalizzare l’universo, di mettere ordine sulla Terra, di controllare tutti gli aspetti della vita umana. Per attuare il suo fine ha fatto leva su un atteggiamento decisamente barocco e rococò, ridondante, formalista, regolato, traboccante di spiegazioni esaurienti e razionali. Io credo che noi ci troviamo tuttora nelle ultime fasi dell’Età della Ragione, cerchiamo ancora di spiegare tutto quello che accade, affermiamo con convinzione di capire un fenomeno anche quando non siamo in grado di definirlo o descriverlo con una sola parola. Io non penso che sia necessario comprendere ogni cosa in modo razionale; dovremmo imparare, piuttosto, a fidarci maggiormente del nostro istinto, ma non ne siamo capaci perché è una cosa che sembra spaventarci ancora molto. Solo una natura istintiva è in grado di afferrare certi fenomeni apparentemente inintelligibili.

Sembra che ci siano delle affinità tra lei e Jung; nell’opera che abbiamo appena citato, egli descrive il “mito dell’Eroe”, che viene inghiottito da un mostro marino, rappresentante l’inconscio, ma che alla fine riesce a scappare dalle sue interiora. Un esempio classico è quello di Giona. Ma noi potremmo aggiungere Pinocchio, che tra l’altro è una sorta di mascotte ne La leggenda del Re Pescatore; anche ne Le avventure del Barone di Munchausen troviamo il protagonista intrappolato nel ventre di un mostro marino dal quale riesce ad uscire grazie ad una spolverata di tabacco…
….Quello che trovo più interessante sono le coincidenze….Io ho un modo del tutto particolare di creare un film: fondamentalmente assorbo numerosissime informazioni da tutti gli ambiti artistici possibili – dalla letteratura, dalla pittura, dal cinema, etc- e dopo cerco di usare queste informazioni per esprimere ciò che è dentro di me, ma non lo faccio in modo conscio. Io vedo che molti registi, mentre lavorano, si procurano le videocassette di tutti i film a cui intendono ispirarsi: è una cosa davvero stupefacente! Io, invece, assorbo dati ed informazioni da ciò che mi sta intorno e faccio bollire nella mia testa tutto questo materiale come fosse uno stufato, fino a quando non sono pronto a “sfornare” qualcosa [“Cinema bollito!ª” esclama divertito Gilliam in italiano]. Ma non copio in modo consapevole; non dico ad esempio: “Realizziamo una versione cinematografica di 1984”, anche perché non ho mai letto il libro di Orwell. Ciò nonostante so di trovarmi nella stessa condizione di tutte quelle persone che possono non averlo letto conoscendone tuttavia l’esistenza ed il contenuto, sapendo di cosa tratta. So che 1984 fluttua nell’atmosfera ed io ho i miei trasmettitori ed i miei ricevitori [indica due antenne immaginarie sulla sua testa e sorride]. Io credo che la nostra mente sia un “collettore d’inconscio” che riceve delle frequenze, dei messaggi; è come girare la manopola delle frequenze di una radio o di una televisione e captare dei segnali, delle onde che si agitano nell’aria. Mi capitano continuamente eventi inspiegabili, strane coincidenze. Mi è accaduta una cosa del genere per Brazil, riguardo alla scena finale ambientata in una splendida valle: come ho detto, non ho mai letto 1984 e quindi all’epoca non potevo assolutamente sapere che esso avesse una fine analoga, praticamente identica al mio film. Mi capitano spesso fenomeni del genere: continuo a scoprire di aver “rubato” le idee a qualcuno senza neanche saperlo.

Hollywood non si è mai mostrata benigna nei suoi confronti; ha spesso cercato di ostacolarla e di censurarla; inoltre la critica americana ha stroncato il suo ultimo film: pensa che tornerà a girare negli Stati Uniti?
Non lo so, comunque quello che mi interessa è di essere riuscito a fare un altro film senza alcuna restrizione. A volte non ho avuto a disposizione i budget che avrei desiderato ma non mi importava, perché potevo disporne come ritenevo più opportuno. Ho sempre avuto un totale controllo su tutto quello che ho fatto e sono riuscito ad evitare quei compromessi a cui molti registi devono sottostare. Continuerò a lavorare solo a queste condizioni.

Che fine hanno fatto i Monty Pyton?
I Monty Python continuano ad esistere. I nostri film vengono tuttora programmati in televisione e trovano sempre nuovi estimatori; il pubblico si rinnova e questo significa che quel tipo di umorismo si è salvato. Probabilmente, se fossimo ancora insieme, non faremmo film come Scemo & + scemo o Tutti pazzi per Mary .

Allora non ci saranno celebrazioni per il trentennale della fondazione del gruppo
Ma sì, anche se non siamo ancora riusciti a metterci d’accordo su come festeggiare. L’ipotesi più probabile è che investiremo nel campo dell’industria alimentare: immetteremo sul mercato una birra col nostro marchio e parallelamente un’azienda di surgelati produrrà una linea Monty Python.

 

Terry Gilliam
Terry Gilliam nasce a Minneapolis nel 1940. Lavora inizialmente come illustratore di riviste e, saltuariamente, in studi di animazione. Nel 1967 si stabilisce a Londra e, due anni dopo, è tra i fondatori del gruppo dei Monty Phyton. Scrive, interpreta e realizza, assieme agli altri cinque componenti, tutti i film del gruppo specializzandosi particolarmente nelle sequenze animate. Assieme a Terry Jones dirige, nel 1974, Monty Phyton, poi per conto suo, Sabberwocky (1977) e I banditi del tempo (1982). Nel 1983 è autore del prologo di Monty Phyton – Il senso della vita (1983). Nel 1984 realizza Brazil. L’ultimo film girato è Paura e delirio a Las Vegas (1998). E’ anche coautore di numerosi libri firmati collettivamente dai Monty Phyton.

FILMOGRAFIA
1974 Monty Phyton and the Holy Grail (Monty Phyton) co-diretto con Terry Jones
1977 Sabberwocky
1982 Time Bandits (I banditi del tempo)
1984 Brazil
1989 The Adventure of Baron Munchausen (Le avventure del barone di Munchausen)
1991 The Fisher King (La leggenda del re pescatore)
1995 12 Monkeys (L’esercito delle 12 scimmie)
1998 Fear and Loathing in Las Vegas (Paura e delirio a Las Vegas)

 

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