Tertio Millennio 2024 – “La storia è più grande di quel che vedi”. Intervista esclusiva a Cristian Mungiu
In occasione della retrospettiva a lui dedicata dal Tertio Millennio Film Fest abbiamo incontrato il regista romeno, Palma d’Oro nel 2007 e miglior regista nel 2016 a Cannes

È un cinema materiale quello di Cristian Mungiu. Simbolo della new wave romena (anche se lui si riconosce più in un cinema globale), più volte premiato a Cannes (Palma d’Oro nel 2007 per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, miglior regia nel 2016 per Un padre, una figlia), Mungiu prende le mosse spesso da fatti di cronaca. Eppure, nell’insistere delle sue inquadrature, lunghe e senza tagli, affonda oltre la superficie, penetrando nell’animo umano. Abbiamo incontrato Cristian Mungiu a Roma, in occasione del Tertio Millennio Film Fest.
Il Tertio Millennio ha dedicato una retrospettiva sulla tua carriera. Come ci si sente a guardare indietro all’intero percorso?
Non vedo mai i miei film dopo averli finiti, cerco sempre di guardare avanti e non indietro. A volte, quando sono costretto a rivederli, penso che alcune parti siano a posto e altre meno. Non sono comunque attaccato emotivamente a essi, faccio quel che serve per promuoverli, penso che sia un bene averli fatti, ma guardo avanti.
Nei tuoi film c’è sempre una sospensione, un’attesa piena di tensione. Come ci lavori?
Credo che puoi avere tensione in un film solamente se lo vuoi, non viene così, tanto per. Quando penso alla storia per il mio prossimo film, penso se ha il potenziale di esser raccontata in maniera sufficientemente gradevole per lo spettatore? Deve avere qualcosa di rilevante per me e per il momento che sta attraversando il mondo. Allo stesso tempo deve essere raccontata in maniera tale che abbia una presa sullo spettatore e che, anche se socialmente realistico o basato sulla realtà, deve sembrare una sorta di thriller. Questo perché il film non è solamente la storia che vuoi raccontare, riguarda anche quello che vuoi che il tuo pubblico senta, quello che il pubblico sente attraverso l’esperienza dei personaggi principali. Mi chiedo sempre se la storia su cui lavoro ha gli ingredienti necessari per essere costruita in modo tale da farti stare attento fino alla fine, anche se all’inizio sei attento solo al primo livello della storia. Usando lo spirito critico, magari ci arriverai comunque più avanti nel film. Non voglio però fare un tipo di cinema arthouse lungo e piatto. Credo che puoi parlare di questioni importanti pur facendo un film che sia interessante per il pubblico. Oggi siamo bombardati da informazioni visuali, quindi non è facile immetterne di nuove senza chiedersi: ‘Come può essere diverso da tutto questo rumore?’. Per questo cerco sempre una modalità per la quale non diventi un peso assistere a queste storie e a questi messaggi. Cerco di parlare al pubblico di sé stesso.
Molti tuoi film sono basati su storie vere. Cerchi questa rilevanza e questa tensione in essi? Come lavori questi fatti realmente accaduti?
Leggo moltissima stampa e a un certo punto ricordo sempre dei fatti che mi hanno colpito. Però, non li rimetto mai in scena. Aspetto per un bel po’, ma a un certo punto capisco che un determinato fatto può avere la potenzialità per parlare di qualcosa che sia rilevante per la società, non in senso nazionale. Parlo spesso di una società globale, non credo che siamo così differenti nel nostro modo di pensare, credo che ci siano delle tendenze generali. Credo che se si va abbastanza in profondità in una storia, questa arrivi a parlare di questioni che normalmente non verbalizziamo. Non succede così nella vita reale: qualcosa ti succede e reagisci. Non funziona così nel film di finzione, devi lavorare con altre regole, devi strutturare l’informazione e le persone le vedono diversamente. Non c’è una vera logica nella vita, noi la rendiamo logica. Nel cinema vedi una scena e sai che la successiva deve essere collegata alla precedente. Inoltre, cerco di capire se qualcosa può essere raccontato in due ore. Alcune storie sono molto interessanti, ma magari hanno bisogno di 10 ore, altre volte è meglio scriverne. Le seleziono e poi ci combatto molto, anche perché il materiale a un certo punto comincia ad avere una sua indipendenza, oltretutto cerco di non giudicare. Il mio obiettivo non è informare il mondo di come la penso. Scrivere sceneggiature non è facile, differente dallo scrivere per la letteratura. Ci sono tutta una serie di obiettivi dei personaggi, c’è la necessità di essere chiari e di seguire la continuità, una scena dopo l’altra. Poi ci sono tutti obiettivi secondari: la tensione, l’atmosfera, capire i personaggi. Poi anche questi momenti morti, che rendono diverso questo cinema da quello mainstream. Ma questo è quel che succede con la vita! Ci sono così tanti momenti morti e devi aspettare. Devi avere dei momenti che contribuiscono a come il tempo passa e come le persone pensano. È un processo complesso e a volte va bene, altre meno.
Quanto controllo poni sulla scrittura e sulla regia?
Credo che la risposta corretta sia: un po’ troppo. Ma è qualcosa di connesso a come giro. Io giro solo inquadrature master, tutte le inquadrature sono continue. È qualcosa di legato all’etica del cinema e alla sua specificità. Se consideri che il cinema mostra come passa il tempo, ti astieni dall’usare il linguaggio con i tagli. Così lo rende come un alfabeto e poi si lavora con le parole. Non lavoro così. Creo una realtà finzionale, e perché diventi tale una condizione è di non tagliare. Ma come puoi immaginare non è facile, è la modalità più difficile per lavorare, creare un evento in tempo reale e registrarlo. Tutto deve essere preciso perché funzioni, ma c’è anche una sorta di libertà, che arriva una volta che hai programmato bene. Una volta che tutti sanno cosa devono fare e non devono più pensarci, allora cominciano a pensare a come si sentono, a come sono realmente lì e non parlano attraverso le parole di qualcun altro. Se riusciamo a raggiungere questa sorta di libertà nei primi 20/30 giorni, c’è perfino tempo per improvvisare. È molto bello, ma non c’è sempre questo comfort. C’è sempre una libertà legata agli attori, c’è un periodo in cui si prova insieme. A volte però arrivi sul set e non funziona comunque, anche con un piano ben pensato. Cominci quindi a cercare il problema: è il problema? Sono stupido? Gli attori sono sbagliati? Non si sa. È un processo interessante ora, ma sul set è doloroso. Ti chiedi come fosse possibile, avevi attraversato il deserto già prima, ma adesso non funziona. È un processo di trial and error. Se hai l’impressione che non sia imbarazzante, allora va bene. Altrimenti, bisogna cambiare.
Quindi gli attori vengono coinvolti a scrittura chiusa
Sì, la scrittura è la fase più importante, ma la scelta degli attori è probabilmente il secondo momento più importante nel dare forma al film. Puoi avere una buona sceneggiatura e fare un pessimo film, ma nessuno può fare un buon film su una pessima sceneggiatura. Magari si può pensare di salvarlo al montaggio, è una stronzata secondo me. Puoi far qualcosa, ma non è quello che volevi fare. Quello che cerco di fare è che appena finisco la sceneggiatura inizio i casting. Non puoi fare molto con un attore che non è nella parte. La maggior parte del lavoro nel dirigere gli attori è sceglierli bene per la parte. Ho lavorato per lungo periodo nelle pubblicità, con molti clienti che mi dicevano che gli piaceva questo o quell’attore. Io dicevo che non andava bene e loro rispondevano che potevo dirigerli e renderli adatti al ruolo. Non funziona così. Devi prendere quello giusto per la parte. Posso migliorarli, ma non farli essere buoni. Devi prendere quello più vicino a quel che ti sei immaginato, poi loro modellano il personaggio e la sceneggiatura e di solito mi prendo un tempo per riscrivere, ascoltando come parlando. Vengo ora da un casting e ho detto: se non dico niente, è un buon segno. Perché se dico qualcosa, reciteranno peggio di come fanno. Cerco di essere estremamente specifico se proprio devo dire qualcosa. Cerco anche di recitare con loro. Se leggo la loro parte, possono avere più informazioni su come vorrei la parte. Prima di girare cerco anche di lavorare su tutto ciò che c’è da dire, non sulla recitazione. Se hanno qualche problema con delle battute, le modifico. Cerco anche di incoraggiarli a parlare come nella vita reale, non come nelle telenovelas, dove prima parlo io, poi parli tu…
Inoltre nella vita non diciamo mai tutto quello che vogliamo dire. Come le tue storie, che sembrano essere lì già prima dell’evento del film e sembra che continueranno dopo i titoli di coda, lontane da noi…
Certo, ogni pezzo di realtà che tu racchiudi nel film è solamente un frammento e devi presentarla come un frammento. Anche se inventi una storia di finzione, quella storia è molto più grande di quel che vedi. Per esempio, scrivo le intere biografie dei miei personaggi. Poi è una questione di master shot. Lì, ti rendi conto che non sarai in grado di registrare tutto quello che accade. Qualcosa sarà sempre fuoricampo. Quello è un buon segno del fatto che la tua storia è più grande di quel che vedi.
Parlando invece del potere nei tuoi film. Ogniqualvolta un personaggio ha il potere in mano, trasforma in arma tutto ciò che ha per raggiungere i propri scopi. Come ti poni con il potere che hai con il tuo film e sul set?
Spero di essere abbastanza onesto: cerco di essere abbastanza aperto agli imprevisti perché possono portarti soluzioni a cui non avevi pensato. Provo ad ascoltare le persone che sono accanto a me, principalmente il mio direttore della fotografia e gli attori. Cerco di essere sempre gentile, il che è un problema. Comunque, arrivo sul set con un piano e probabilmente ho passato due anni in più a pensare a questo film e questa storia di chi mi dà un suggerimento. È difficile avere un’opinione senza avere tutti i dettagli in mano. Non posso lavorare senza un piano. Cerco di pensare a quanta indipendenza ha il film nei confronti del mio piano: 5-10% va bene, vuol dire che il film fa parte di me; se è il 40% vuol dire che non so cosa sto facendo.
Ultima domanda: nei tuoi film, i telefoni squillano spesso…
Non solo i telefoni. Anche le campane suonano, i cani abbaiano, il vento soffia. È legato al fatto che non uso la musica extra-diegetica, ma questo non vuol dire che non so quanto della tensione passi dal suono. Aggiungo migliaia di suoni per raggiungere la giusta tensione nella scena. Devono, però, provenire da suoni concreti, che riempiono l’ambiente e piano piano cominciano a dipingere lo stato mentale del personaggio. Cerco comunque di non abusare di questo meccanismo e di non ripetere troppo le stesse soluzioni. Certo, più film fai e più è difficile fare qualcosa di fresco. Non è semplice (ride, ndr).