Tetsuo: The Iron Man, di Shinya Tsukamoto

In poco più di 60 minuti riscrive le traiettorie future del cyberpunk e del body-horror mondiale, per proporre una visione nichilista e perturbante del rapporto uomo-società. Un miracolo senza eguali

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Cantore del corpo e delle sue trasformazioni, Shinya Tsukamoto si è profilato, sin dal momento in cui ha debuttato nel panorama cinematografico nipponico, quale un meticoloso indagatore della corporeità umana: centro di convergenza della totalità degli elementi che rendono l’Uomo tale, dagli impulsi sessuali agli istinti di sopravvivenza, dai processi di costruzione dell’identità ai meccanismi profondi dell’inconscio, passando – negli ultimi 20 anni – per la configurazione dell’anima. Ma ai tempi in cui ha dato luce alla sua opera prima, il “padre del cyberpunk giapponese” – titolo “strappato” grazie a Tetsuo: The Iron Man al mentore Sōgo Ishii – il regista era interessato ad articolare le sue riflessioni sul corpo attorno ad una sola idea di matericità. Perché nel 1989, ovvero in piena bubble economy, gli effetti deumanizzanti della società del Sol Levante erano ancora percepiti, dal cittadino-salaryman, in tutta la loro deflagrante virulenza: quasi attivassero nelle corporeità di chi li esperiva, una serie di fenomeni patologici vissuti, con sofferenza, sulla pelle stessa dell’individuo oggetto di indagine. In preda a trasformazioni (sociali, esistenziali ed identitarie) che in un contesto di omologazione collettiva come quello del Giappone di fine anni ’80, non potevano che essere narrate sotto forma di trasfigurazioni corporee esplosive.

Guardando a Tetsuo: The Iron Man, la riflessione di Tsukamoto sul corpo risulta qui pienamente iscritta in una dimensione materiale (definita dalla dialettica organico/inorganico) ed incentrata, in particolar modo, sulla figura liminale del cyborg: ovvero su quell’organismo dallo statuto ambivalente, a metà tra la carne e il metallo, che si configura nell’opera prima del maestro come il manifesto delle mutazioni corporee attivate dall’ambiente deumanizzante (cioè la “metropoli di cemento”) in cui tale essere è inserito. E ragionando sul destino involutivo dell’uomo, Tsukamoto mette in scena con Tetsuo la corporeità dell’essere post-umano, da intendere quale mezzo unico di liberazione dall’oppressione dell’organismo e dalle repressioni sociali di cui il cittadino comune giapponese è oggetto sotto i dettami dell’industrializzazione e del conformismo assoluto ai tempi della bolla economica, di cui Tsukamoto, mostrandone i brutali effetti mediante i codici perturbanti del body-horror, ne anticipa anche l’imminente esplosione, avvenuta poi soli due anni dopo l’uscita di questo film-manifesto. A testimonianza non solo del sentore di urgenza di cui si connotano qui le riflessioni del regista, ma anche dell’oculatezza con cui il maestro indaga le evoluzioni (o involuzioni) della società a cui appartiene, scardinandone i meccanismi di base.

E per poter restituire spessore e coerenza a tali discorsi, Tsukamoto – guarda caso – apre la sua carriera con un saggio-teorico sulla condizione (dis)umana in cui versa il salaryman: ovvero il cittadino-tipo, omologato alla massa, che ha rinunciato alla propria soggettività per servire l’azienda a cui ha delegato la sua stessa identità. L’innominato protagonista di Tetsuo: The Iron Man richiama, a tutti gli effetti, il classico dipendente salariato del Giappone contemporaneo. Nell’iconografia, così come nello status sociale, non presenta divergenze apparenti con il resto della “massa lavoratrice” del paese, almeno finché un giorno non investe con l’automobile quello che sembrerebbe essere un suo omologo. In realtà l’uomo che ha ferito a morte, e di cui ha cercato di occultare il cadavere, aveva “contaminato” poco prima la sua carne con del ferro arrugginito, in modo da perseguire, almeno metaforicamente, il sogno dell’enhancement corporeo, del miglioramento delle proprie prestazioni fisiche, garantito dall’ibridazione con l’elemento inorganico: ovvero il solo espediente che gli avrebbe consentito di trascendere la finitezza della carne, al fine di acquisire le proprietà cibernetiche di un essere super-umano. Vale a dire di quella figura a metà tra l’organico e l’inorganico, tra i fattori biologici dell’individuo e le strutture metalliche della macchina, che materializza, agli occhi dei subalterni, l’unica forma di corporeità che permetterebbe ad un salaryman di respingere le spire opprimenti della metropoli, e di sopravvivere in una società incompatibile con le istanze più recondite di umanità, dove non esiste neanche spazio per la libera formulazione di una soggettività ben definita.

L’incontro con il “feticista” porta l’ormai ex salaryman a svestire progressivamente i panni del dipendente salariato privo di un’identità riconoscibile, in nome di alcune trasfigurazioni corporee che vedono sì una sudditanza dell’elemento organico a quello inorganico, ma che proprio in virtù di tale asimmetria, ridefiniscono i confini binari di natura/artificio e vita/tecnologia, fino a riscrivere il futuro evolutivo della specie umana (e poi del cyberpunk). E questo processo di riconfigurazione evoluzionale è garantito, sin dalle inquadrature iniziali di Tetsuo: The Iron Man, dalle formule più intrinseche del body-horror: caricate, adesso, di una valenza politica (e polemica) senza veri precedenti, proprio perché legano le deturpazioni fisiche e il progressivo abbandono, da parte dell’individuo, delle sue strutture umane, alle atmosfere soffocanti di una megalopoli, qual è la Tokyo di fine anni ’80, che ha favorito il decentramento dell’uomo e della sua singolarità in favore di una desoggettivante idea di massa sempre uguale a sé stessa, e per questo impermeabile alle peculiarità e al “calore” dell’organismo.

In poche parole, quello che ci sta dicendo Tsukamoto attraverso questa inesorabile meccanizzazione dell’uomo messa in scena in Tetsuo: The Iron Man, è che senza la contaminazione con un corpo-estraneo, l’essere umano rischierebbe di collassare sotto il peso delle crisi esistenziali generate dal contesto societario, laddove il cyborg riuscirebbe, in parte, nel tentativo di dominarle. Ed è per questo che, una volta avvenuta la metamorfosi in un ibrido di carne e macchina, non c’è alcuna possibilità di un ritorno per il protagonista ad una condizione esistenziale (e corporale) pregressa, a differenza invece di quello che accadrà in Tetsuo III, realizzato nel 2009, vale a dire in un periodo temporalmente distante dalla bolla e dalle conseguenze generate dalla sua esplosione, tanto che la trasfigurazione risulterà lì reversibile.

Per tale motivo, ogni immagine del debutto tsukamotiano non può che denotare una visione nichilista della società contemporanea: dalla quale nessun uomo, soprattutto chi vive in una metropoli ingabbiante, può realmente fuggire. A meno che, grazie al potenziamento garantito da un’ibridazione corporea, non si sfrecci a velocità forsennate tra le sue strade di cemento, in modo da sfuggire al richiamo soffocante della città. “E se trasformassimo l’intero mondo in metallo, tu ed io?” domanda sul finale il neo-Tetsuo all’uomo-metallico con cui si è appena fuso. “Certo” gli risponde la sua controparte naturale. “Il nostro amore può mettere fine a tutto questo fottuto mondo. Andiamo a farlo!”. Una battuta, questa con cui si conclude il film, che materializza in un istante delle traiettorie inedite per il body horror mondiale e per i suoi protagonisti-in-trasformazione, capaci, qualora non fosse ancora chiaro, di somatizzare le matrici del cambiamento, e di farsi atto politico. Riflessioni che forse, senza Tetsuo: The Iron Man, non avrebbero mai trovato – al di là di Cronenberg – una sublimazione così deflagrante.

Titolo originale: id.
Regia: Shinya Tsukamoto
Interpreti: Tomorowo Taguchi, Shinya Tsukamoto, Kei Fujiwara, Nobu Kanaoka, Naomasa Musaka, Renji Ishibashi
Distribuzione: Cat People Distribuzione
Durata: 67′
Origine: Giappone, 1989

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
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Il voto dei lettori
4.33 (3 voti)

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