Tezuka e il progetto "Metropolis"

Il film di Rin Taro nasce da un fumetto dato alle stampe nel 1949 dal “dio del manga” ispirato al film di Fritz Lang

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Il progetto di “Metropolis” ha origine nel 1949, quando Osamu Tezuka dà alle stampe il fumetto, concepito peraltro senza che l’autore avesse visto l’omonimo capolavoro di Fritz Lang. Anzi la folgorazione era venuta unicamente da una foto del celebre robot dorato, divenuta negli anni l’icona stessa del film. “Metropolis” versione animata, invece, è costato cinque anni di lavoro e 150.000 disegni, realizzati sotto l’attenta regia di Rin Taro, già autore della serie “Capitan Harlock” e del film dedicato al “Galaxy Express 999”.
La realizzazione del lungometraggio animato, perciò, giunge come ultimo tributo alla grandezza di Osamu Tezuka (1928-1989), purtroppo ancora poco conosciuto in occidente, nonostante non siano mancate le occasioni per il distratto pubblico italiano di confrontarsi il complesso mondo ordito dal “manga no kamisama” (“dio del manga”). Osamu Tezuka, infatti, è da almeno vent’anni una figura familiare per gli appassionati di animazione giapponese e alcune serie da lui dirette si sono viste sui network nazionali fin dai primi tempi della programmazione selvaggia: “Kimba il leone bianco”, “Astroboy”, “Capitan Jet”, e “La principessa Zaffiro” sono opere celebri, anche se oggi risultano tecnicamente e narrativamente superate. Tezuka infatti le realizzò nei primi anni Sessanta, quando l’animazione seriale televisiva era pressoché inesistente: “Kimba”(1965) fu infatti il primo serial a colori e “Astroboy” (1963) addirittura è accreditato come il primo in assoluto (in seguito Tezuka avrebbe fondato due case di produzione, la Mushi Productions e la Tezuka Productions, dalle quali sarebbero usciti grandi talenti).
Fu proprio lui, dunque, il precursore del genere, ideando l’animazione con otto fotogrammi al secondo anziché ventiquattro (per risparmiare) e storie autoconclusive. Proprio per questo le serie citate appaiono trasposizioni abbastanza incolori dei relativi fumetti, dove l’autore dà invece sfogo al suo talento toccando temi come l’ambiguità sessuale (in “Zaffiro”), il rispetto del delicato equilibrio esistente nel “cerchio della vita”, cioè nell’ecosistema naturale (in “Kimba”, tema e storie poi riprese furbescamente dalla Disney ne “Il re leone”) e anticipando il cyberpunk e il genere dei robot con “Astroboy” (che potremmo definire anche un precursore del David di “A.I.”). E non è un caso se anche Hayao Miyazaki citi come modello l’opera cartacea di Tezuka, bocciandone però in toto le trasposizioni animate. Per vedere all’opera il miglior Tezuka bisogna dunque aspettare i tempi più recenti e opere come la miniserie dedicata a “Black Jack” (realizzata da Osamu Dezaki) o per l’appunto il film di Rin Taro “Metropolis”. Ma il lettore volenteroso può facilmente accostarsi anche ai fumetti dell’autore, pubblicati da vari editori italiani, ad esempio il già citato “Kimba” (Comic Art) o, su tutti, il poderoso “La storia dei tre Adolf” (Hazard Edizioni), dramma a sfondo storico incentrato su alcuni documenti che proverebbero l’origine ebrea di Adolf Hitler e ne condannerebbero inevitabilmente il sogno di dominio. Un capolavoro dove l’autore dimostra di essere a suo agio anche con una vicenda molto complessa, che alterna precise ricostruzioni storiche, a tinte gialle e ad una profonda costruzione psicologica dei personaggi, giustamente accolta con grande interesse anche in Italia.

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Lo stile di disegno di Tezuka è tondeggiante e un po’ grottesco (spesso i personaggi hanno nasi abnormi o altrettanto grandi baffoni), con occhi enormi che hanno influenzato le generazioni future e prodotto il curioso effetto di “occidentalizzazione” dei protagonisti (una scelta stilistica erroneamente imputata al desiderio di conquistare i mercati europei). Tezuka li riprese da Disney, di cui si dichiarava un grande ammiratore, perché li riteneva più espressivi (e, soprattutto in animazione, dovendo affidarsi a pochi disegni l’espressività era importante). Anche nelle sue opere più drammatiche (come “Adolf” appunto) questa tendenza alla creazione di figure buffe e ad un tratto molto marcato e tondeggiante non si esaurisce mai, ma grazie alla padronanza di uno stile che applica tecniche cinematografiche (estremo dinamismo nella scansione delle vignette, giochi di luce, prospettive inedite) al disegno su carta, ancora oggi il fascino delle sue opere risulta immutato.
Proprio di recente, infine, sono iniziate le pubblicazioni di “Black Jack” (ancora Hazard, ma qualcosa si era già visto anche per la Comic Art e la Dynamic Italia), il personaggio più celebre e riuscito del Maestro: un chirurgo sfregiato, dalla capigliatura bicolore, che opera solo dietro compenso e le cui tecniche non sono riconosciute dalla medicina ufficiale – che lo ha radiato dall’albo professionale – ma la cui bravura è ineguagliabile. Un personaggio complesso e chiaroscurale, che nasconde la sua voglia di aiutare il prossimo dietro un pragmatismo ombroso che riflette la sua disillusione per un’umanità che generalmente lo teme e disprezza, e il desiderio di accostarsi unicamente a persone che possono comprendere, come lui, il sacro valore della vita.

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