#TFF33 – Cinema degli inganni: Me and Earl and the Dying Girl, di Alfonso Gomez-Rejon (#TorinoSense2)

Ecco un film che rompe il patto di fiducia autore/spettatore, vanificando una buona prova attoriale con una scelta provocatoriamente immorale: mentire al pubblico. Dal Sundance non ce lo si aspettava!

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Ci sono film, o parti di film, che a volte mettono in dubbio il rapporto autore/spettatore. Che é un rapporto basato su una fiducia che ha poche regole, ma tendenzialmente chiare. Non si può barare. Non mi puoi ingannare con la storia, caro autore, hai la “narrazione dalla parte del manico” e quindi devi essere sincero con me. Certo mi puoi sorprendere, mi puoi regalare dei finali inaspettati, persino più di uno, ma non devi mai barare. Mai “nascondere le prove” o, peggio ancora, fornirmi prove false.

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Ecco perché un filmetto, a tratti adorabile (anche per due giovani attori in stato di grazia come Thomas Mann e Olivia Cooke), come Me and Earl and the Dying Girl, di Alfonso Gomez-Rejon, risulta alla fine inaccettabile. Ma non perché il regista sceglie di cambiare registro, di passare dalla commedia adolescenziale a un tono melodrammatico e triste, ma perché sceglie, con cattiveria sardonica, di far mentire nientemeno che la voce fuoricampo del protagonista/narratore Greg.

Che è il classico nerd di lunga tradizione cinematografica, che usa la tattica dell’invisibilità pubblica, unita a mirate apparizioni nei gruppi della scuola, per evitare i problemi classici dell’integrazione/emarginazione. Nel frattempo passa il tempo con il suo amico Earl a fare il filmmaker da due soldi, realizzando parodie di film in produzioni zero budget di qualità immonda. Dove salta il meccanismo di autoconservazione? Quando la premurosa e tollerante madre lo costringerà ad occuparsi della figlia della vicina, Rachel (Olivia Cooke), gravemente malata di leucemia a uno stadio quasi terminale. Da qui assistiamo alle avventure controvoglia di questo giovanotto, che giorno dopo giorno si ritrova a fare compagnia alla sfortunata ragazza. E se la tradizione ci farebbe aspettare l’inevitabile storia d’amore tra il nerd e la ragazza dagli occhioni grandi, ecco che Gomez-Rejon ci infila la prima sorpresa: questi due resteranno solo amici. E il film lentamente, tra una visita a casa di Rachel, una litigata con Earl (l’amico nero con cui Greg realizza i suoi filmacci) e due chiacchiere con il professore hipster, si avvia verso una commedia malinconica, se non fosse che a un certo punto il protagonista ci dice: “non vi preoccupate, la ragazza non morirà”, ripetendolo anche un’altra volta. Ecco che lo spettatore è tranquillizzato, grazie, ci hai evitato di precipitare nell’abisso della ragazza morente. Ma questo regista (e il suo amico scrittore da cui ha tratto la storia) non ha lo spessore umano ed emozionale (lasciamo perdere quello cinematografico) di Gus Van Sant, e il suo film è lontano mille miglia dal capolavoro Restless.

Insomma il farabutto rompe il patto: ci rassicura prima, per fregarci poi (e magari far pensare ai più attenti e prevenuti fra noi “eheheh bastardo non ci sono cascato!”). Ma ormai il patto è rotto, l’incantesimo spezzato, e noi ci vendichiamo con lo spoiler, eccovi il finale: la ragazza muore sul serio.

Non so perché questo film abbia cosi tanto appassionato il pubblico del Sundance, ma certo ci mette in guardia sempre più sull’autorevolezza morale delle produzioni che arrivano da quel Festival (su quelle estetiche già da tempo avevamo perso fiducia). Peccato perché il suo fondatore, Robert Redforfd (ma da quest’anno non più direttore) è, soprattutto, un cineasta morale, e sembra che i suoi successori non abbiano proseguito la sua linea di condotta.

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