#TFF33 – Giorno 1 – Origine

Navigando di sala in sala, scorrendo sezione per sezione, senza un ordine prestabilito, è bello riscontrare in questo TFF33 una forte dose di riflessione su come stiamo vedendo (nel)la nostra epoca

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Da dove provengono le immagini (del cinema)? Ecco, navigando di sala in sala, scorrendo sezione per sezione, senza un ordine prestabilito, è bello riscontrare in questo Torino Film Festival 33 una forte dose di riflessione su come stiamo vedendo (nel)la nostra epoca. E su dove il Cinema possa ancora sopravvivere e mostrarci il mondo, attraverso la sua ormai “storica” lente deformata. Prendiamo il caso di Real Oni Gokko Tag di Sion Sono (After Hours), ennesima follia provocatoria del regista giapponese che riciclando una miriade di scarti dell’immaginario cinematografico (qui si va dai classici di Hitchcock al new horror giapponese anni ’00) tenta di scherzare-seriamente sulla nostra identità clonata (dai social network?), sul nostro sguardo sempre più pericoloso che muta e fa mutare i corpi e i connotati. Dietro ogni singolo specchio. E allora è il vento-in-soggettiva, quindi la stessa inquadratura, che semina il panico in Giappone, arrivando alla soglia di un originario giocatore (guarda caso davanti a un televisore anni ’80, manovrando un joystick anni ’80, tanto per ribadire “dove sono le origini” di tutte queste riflessioni). La vita è surreale, non lasciate che vi consumi si ripete come un tormentone alla giovane Mitsuko, giovane protagonista che continua solo a guardare e a provocare la morte altrui, immersa in un (video)gioco macabro e ironico dove la vita, la morte e le immagini si con-fondono senza confini. Il film è un po’ macchinoso (l’anarchia narrativa e formale del Miike di As the Gods Will è altra cosa) e a tratti discutibile, ma fotografa benissimo il punto della situazione: i corpi ormai intercambiabili e lo sguardo mai sicuro sui fenomeni. Centro.

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Ancora After Hours per Guy Maddin e il suo The Forbidden Room, ultima deriva cinematografica del prolifico autore canadese. E ci si chiede di nuovo dove il cinema del passato (quello dei grandi racconti archetipici) sia andato a finire. Per Maddin, inequivocabilmente, le tracce vanno scovate in singole immagini ormai slegate da qualsiasi contesto. Immagini che da sole possano far sopravvivere un mondo: forme, parole e personaggi provenienti da ogni epoca (soprattutto il Classico come cinema più puro) che accorrono letteralmente a salvare gli ultimi uomini persi in un sottomarino malconcio. La memoria, manco a dirlo, sono le immagini del cinema passato che si spintonano, si dissolvono e si sovrappongono in una operazione molto (troppo?) intellettuale, che pur manifestando una innegabile potenza affabulatoria resta un po’ troppo chirurgica e pre-vista per emozionare nel profondo.

Things-To-Come-1

Things To Come (1936)

Poi, però, siamo travolti Onde meravigliose. Come quella del grande cineasta filippino Kidlat Tahimik, che nel suo Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III rilancia ogni riflessione nell’imponderabilità della vita e del suo scorrere (come la vecchia pellicola…), e allora si vorrebbe solo stare in silenzio di fronte a tanta straordinaria (eppur leggerissima!) “complessità”. Il protagonista è Enrique, schiavo di Magellano e primo uomo a circumnavigare la Terra… ma il film è soprattutto un viaggio attraverso le tracce di Enrique, che solo le immagini possono far risorgere. Oggi. Vera archeologia dell’immagine (dal Super8 al 16mm, sino alle Mini Dv) e nel contempo prova evidente di una vita del Cinema a prescindere dai suoi supporti. Perché i volti e le forme, i sentimenti e la memoria sono sempre declinati al presente in una furia sperimentale-e-intermediale dove la Storia (dallo schiavismo del 1500 al Cinema che cerca “libertà” nel 2015) diventa una purissima questione di linguaggio. Tahimik racconta la storia di Enrique e nel contempo la propria: mette in fertile relazione una Memoria (la scoperta delle Filippine come la riesumazione dei suoi 16 mm degli anni ’80, quindi la sua giovinezza di cineasta) con l’era della proliferazione delle immagini (il nostro/suo 2015) vista paradossalmente come foriera di grosse scoperte. Immensa lezione su come il Cinema sia esso stesso una origine dell’immagine, sempre-in-divenire, per questo impossibilitato a morire. Meraviglioso.

p.s. Solo in un Festival si può assistere a tutti questi film così “contemporanei” e capitare poi in una sala dove si proietta un film del 1936, Things to Come (di William Cameron Menzies, nella Retrospettiva), che sembra ribadire dal passato (?) ogni cosa sin qui detta. Un film che configura il “presentimento” scioccante della guerra e delle sue conseguenze sociali e politiche, configura gli incubi che tutti stiamo vivendo (in questi giorni…) e che rimuoviamo nelle immagini così invadenti, tenta di parlare al futuro (quindi a noi…) con incredibile forza immaginifica. Una voce che dal 1936 sembra parlare del nostro “oggi”.

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