#TFF34 – Christine, di Antonio Campos

Christine, diretto da Antonio Campos, narra la vicenda reale della giornalista sparatasi in diretta televisiva. Un ritratto magnetico della fragilità dell’uomo e delle sue relazioni. In concorso.

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If it bleeds, it leads” (Se c’è sangue, fa audience).

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Christine Chubbuck, giornalista attiva soprattutto negl’anni ’70, a fronte di una depressione mal curata e di una frustrazione lavorativa sempre più incalzante, decise di togliersi la vita in diretta televisiva. Il regista Antonio Campos, supportato dalla performance magnetica di Rebecca Hall, mette in scena una vicenda i cui filamenti tragici si consumavano dietro i colori del tubo catodico. La figura pallida ed elettrica di Christine mette a nudo una società di paradossi e ingiustizia che infligge il colpo brutale solo a chi non indossa la corazza o se n’è svestito a causa di un cinismo giustificato.

Non c’è ombra di indagine investigativa nella pellicola di Campos. Dimentichiamoci Tutti gli uomini del presidente, Il caso Spotlight e rientriamo in una dimensione talmente intima da risultare abissale. Christine fotografa un panorama che non riguarda solo il mondo

trasferimentogiornalistico, quanto l’universo della relazione umana. La scala dei valori, il compromesso e l’arrivismo sono immortalati in una risoluzione più da polaroid che da Sony ultimo modello. Questo perché i tentativi della giovane donna di rivoluzionarsi, di reinventare i paradigmi della sua scelta lavorativa, perdono il contatto con la realtà e la piegano ad una provocazione malata ma al tempo stesso affascinante, in perfetta linea con lo stoicismo del Catone dantesco. Tutti attorno a lei: la madre/coinquilina, la talentuosa amica camaraman, i due conduttori, chiunque scala la vetta del successo che meglio si confà alle loro aspettative. Christine invece è talmente impegnata ad ottemperare ai desideri del suo boss da perdere di vista il fulcro della sua missione: non solo fare notizia, ma nutrirsi della speranza intrinseca alla tragedia, quelle storie fatte di carne e ossa che sembrano interessare solo lei.

trasferimento-1L’unico dialogo della donna è con le marionette usate per intrattenere i bambini ricoverati in ospedale. Il contatto con la sua sfera infantile sviscera enormi conflitti, consigli, monologhi illuminanti su come si può galleggiare senza affogare. Campos tenta di salvaguardare questo motore vitale, ma nulla può contro una personalità già compromessa dalla malattia e serva di una solitudine infarcita di perfezionismo. Una ricerca di completezza, di luce salvifica che non va a braccetto con l’identità sempre in mutamento. Di fatto, quando comprende di dover seguire un copione, di dover sottostare ad una vita pianificata in maniera opposta a quanto desiderato, e non come si potrebbe pensare a causa di un bel faccino, cade rovinosamente. Il biopic di Campos ritaglia uno spazio riservato solo alla giovane donna e riempie lo schermo di un’universalità coinvolgente e triste per i suoi aspetti più assurdi. Da ricordare.

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