#TFF34 – Daguerrotype, di Kiyoshi Kurosawa

Nello scarto tra immagine e immaginario, tra la costruzione ossesssiva e la libertà del gesto teso alla vita, veniamo ancora travolti da impagabili attimi di puro cinema. Presentato in Onde.

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Ciò che vediamo con gli occhi è solo una minima parte del mondo continua a dirci Kiyoshi Kurosawa. E il suo cinema diventa sempre più popolato di fantasmi (interiori), proiettato in varie dimensioni (alternative), dove spazi e tempi collidono e coesistono, pulsano e si trasformano, comunque immaginano. Questo Daguerrotype (primo film del regista di Tokyo Sonata fuori dal Giappone, ambientato nei dintorni di Parigi) tenta dalla prima inquadratura di alludere alle origini della riproducibilità tecnica delle immagini come origine di ogni fantasma che ancora ci perseguita. Stephane (Olivier Gourmet) è un famoso fotografo di moda che insegue da anni il progetto folle di riprodurre esattamente le prime fotografie di 170 anni fa, utilizzando un dagherrotipo d’epoca che ha fatalmente bisogno di un tempo di esposizione lunghissimo: venti, trenta, settanta o addirittura centoventi minuti. Tempo nel quale il soggetto umano è fermo, imbalsamato, immobilizzato da un imbracatura metallica per permettere alla macchina di “rubare qualcosa di te” e restituire una traccia di reale. Insomma il sogno impossibile di un corpo/immagine vivo in un tempo dove le immagini digitali (che Stephane dice di odiare) si svincolano ormai da ogni referente con la realtà. Tutto diventa personale per il fotografo: il primo soggetto è stata sua moglie (poi misteriosamente defunta), sostituita ora dalla giovane figlia Marie (Costance Rousseau) costretta a estenuanti sedute nella cantina di casa davanti al dagherrotipo che la indebolisce sempre di più.

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3Si palesano così tutti debiti con la letteratura di Edgar Allan Poe e con l’horror gotico di Bava, Corman, e ancora più indietro sino a La caduta della Casa Uscher di Epstein (citato meravigliosamente nei drappi che volano di nuovo…). Il dispositivo blindato di Stephane viene quindi sabotato dallo sguardo di un ospite, il suo nuovo assistente Jean (Tahar Raihim) che rompe gli equilibri sentimentali di Marie e la spinge verso una libertà che in cuor suo brama. Il film allora smargina ogni canone e confonde ogni attesa, fondendo straordinariamente due immaginari tanto cari a Kurosawa: l’horror gotico alle soglie del visibile, sempre al confine tra campo e fuori campo, nelle porte socchiuse che scricchiolano e nascondono verità insondabili oltre il buio; e poi la libertà del cinema moderno, i falsi raccordi della vita e i fantasmi di Franju, Chabrol o dell’ultimo Truffaut che premono sulle immagini del suo film “francese”.

daguerrotype_2Insomma questi fantasmi non possono proprio concederci una narrazione lineare, non possono essere semplicemente riprodotti come vorrebbe Stephane, perché hanno già una loro vita e una loro memoria, vagando per il film con una libertà creativa incredibile. Una libertà in in cui ci si può anche perdere, a tratti “incomprensibile”, ma mai sterile o fine a se stessa. Ogni immagine di Daguerrotype ha un passato che forza l’ossessione tecnica di Stephane (destinata alla follia) e libera momenti di inattesa contingenza (come lo stupendo bacio improvviso tra Marie e Jean). Ed è proprio in questo scarto tra immagine e immaginario, tra costruzione asfissiante dell’inquadratura perfetta e libertà di un gesto sempre teso alla vita, che veniamo ancora travolti da impagabili attimi di puro cinema che bilanciano la cupezza della storia. Un film bellissimo.

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