#TFF35 – À voix haute, di Stéphane de Freitas
In competizone al Torino Film Festival un documentario di Stéphane de Freitas, A voix haute/Speak Up, ambientato in una scuola dei sobborghi di Parigi dove si tiene una gara di eloquenza. Concorso.
“Eloquentia è un programma d’insegnamento per imparare a parlare in pubblico destinato ai giovani per permettere loro di esprimere le proprie idee, affermare i propri valori e sviluppare fiducia in se stessi qualunque sia la loro provenienza sociale“. Parole di Stéphane de Freitas sul progetto dal quale è nata l’occasione per fare un film, sviluppato dal regista stesso in uno dei sobborghi di Parigi, Seine Saint Denis, che è anche il luogo dove è cresciuto, un posto popolato prevalentemente da individui di medio/bassa condizione sociale, interessato da problemi inerenti un processo di integrazione divenuti cronici. Un’area critica da molteplici punti di vista.
Il linguaggio giovanile di colloquialità in codice minimal, sintetizzato in maniera esponenziale dopo l’avvento dei social, è il risultato di una predisposizione personale calata in un contesto ambientale specifico, va da sé l’uso improbabile di un gergo forbito, esposto a fraintendimento, in un’arena abituata ad espressioni perlomeno più plateali. Vivendo fianco a fianco con le difficoltà le parole prendono i connotati di un’arma, vengono usate in prevalenza in funzione negativa di indifferenza ed aggressività, associate ad un immediato riscontro di notorietà. Un fenomeno d’accettazione antiesclusivo trasfigura in un limite nell’instaurare dei legami veri, duraturi, complica la ricerca di lavoro per ragazzi già facilmente vittime di pregiudizio, per ceto, colore della pelle o orientamento religioso.
Il film è un lungo excursus dalla selezione dei candidati alla proclamazione del vincitore, una scuola creativa per imparare a conoscere le rispettive potenzialità apprendendo il discorso ammaliante, l’uso della retorica adoperato in concomitanza al corpo con una gestualità di derivazione teatrale. Vengono fuori le differenze nelle aspettative, la spinta motivativa, i sogni ed i desideri degli allievi, in una confessione inizialmente impulsiva, poi misurata, riflessiva, anche se di connotazione ugualmente autentica. Si scoprono i retroscena e di pari passo si svela, non è certo una sorpresa, che padroneggiare la tecnica è esercizio fine a se stesso, freddo, meccanico, insapore, da riaccendere soffiando sulle braci giunte sul punto di spegnersi alimentandole di vissuto, di passato combustibile.
Per certi versi ricorda, escludendo il dato anagrafico, La classe – Entre les murs, finendo però per perdere, differentemente dal film di Cantet, la forza propulsiva dell’innesco. Avvitandosi in una successione dal sapore ripetitivo, lasciando chiuse delle porte sprovviste di serratura, resta qualcosa di intravisto che soltanto un canonico, anche esemplare, svolgimento cronologico fatica a cancellare.