#TFF35 – Arpón, di Tomás Espinoza

Un film perennemente in bilico tra le intenzioni e il risultato, tra la volontà di mettere in scena una realtà sfaccettata e ricca di contraddizioni e l’impossibilità di lasciarla vivere. Concorso.

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Germán è un preside dal pugno di ferro, o almeno questa è l’immagine che lascia trapelare di sé al mondo esterno. Un uomo solitario ma capace di aprirsi alla tenerezza, cliente abituale della prostituta Mica e ossessionato dalla disciplina delle sue studentesse, che sottopone ogni giorno a un rigido controllo degli zaini per impedire l’ingresso nella sua scuola di oggetti pericolosi e indesiderati: come ad esempio la siringa trovata nel bagno delle ragazze, utilizzata dalla giovane e problematica Cata per gonfiare le labbra delle compagne. L’esordio nel lungometraggio di Tomás Espinoza è la storia dell’incontro di queste due vite apparentemente agli antipodi ma che, poco a poco, si riveleranno speculari e complementari grazie alla convivenza forzata nell’arco di un giorno e una notte, durante i quali l’uomo si ritrova costretto ad accudire la giovane in attesa che la madre torni a prendersene carico.

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La macchina da presa segue costantemente i personaggi lungo i corridoi della scuola, nelle strade e nelle case, attaccandosi alla nuca e ai volti nel tentativo di scardinare le relazioni di sottomissione e potere che i ruoli e le istituzioni hanno già deciso a priori. C’è una continua aspirazione alla leggerezza e alla spontaneità nei gesti, nell’evoluzione dei rapporti e nella progressione narrativa che però non si realizza mai fino in fondo, perché tutto quello che vorrebbe sembrare naturale appare – al contrario – il risultato di una forzatura e di un deus ex machina: forse i quattro anni impiegati per la scrittura (tanti ne ha ammessi il regista), a fronte di sole quattro settimane di riprese, rappresentano il paradigma di un’opera prima perennemente sospesa in bilico tra le intenzioni e il risultato, tra la volontà di mettere in scena una realtà sfaccettata e ricca di contraddizioni e l’impossibilità di lasciarla vivere libera fino in fondo, impedendo così a quei pochi momenti di vera autenticità di trovare il proprio spazio e la propria dimensione all’interno del film.

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