#TFF35 – Daphne, di Peter Mackie Burns
Un esordio dall’ambientazione sofisticata e dai dialoghi naturalistici che mette in scena contraddizioni e sfumature di un’eroina moderna gettata nel presente e inadatta a stare al mondo. Concorso
C’è una scintilla di autenticità in quest’esordio di Peter Mackie Burns che prende le mosse e si concentra sulla sua protagonista, Daphne, una ragazza di trentun anni che vive sola in un appartamento a Londra lavorando come apprendista chef in un locale gourmet. Assidua bevitrice ed esperta di relazioni umane – il suo cinismo nei confronti degli uomini e dell’amore è proverbiale – sembra in cerca di una stabilità (non solo sentimentale) che non arriva mai: il suo è quasi un rifiuto della realtà, delle persone che la circondano (la madre che continua ad assillarla e il suo capo, sposato e innamorato di lei); un continuo isolamento da cui, in seguito a un episodio scioccante, tenta di emergere. Ci si aspetta una svolta; si pensa: ecco l’evento scatenante che cambierà il suo modo di vedere le cose, e invece ciò non accade. La vita di Daphne riprende come prima, tra sesso passeggero e dubbi esistenziali; la ragazza prova inutilmente una seduta da uno psicoterapeuta, se ne va quando vede nello scaffale dietro di lui la serie di libri di Harry Potter.
La sceneggiatura di Nico Mensinga è un insieme di tasselli spigolosi che alla fine trovano il loro incastro: la narrazione non procede in maniera lineare, ed è proprio questa frammentazione a costituire il contatto più immediato con la realtà; non si tratta di un racconto episodico e slegato, quanto di un tentativo riuscito di rappresentare contraddizioni e sfumature del personaggio, una donna moderna gettata nel presente, il quale si specchia di riflesso in quella condizione di stancante ondeggiamento tra una riva e l’altra, che ci rende incapaci di approdare in un porto felice. Una commedia dall’ambientazione sofisticata (si avverte un sentore di Allen) e dai dialoghi naturalistici che ricorda molto la Frances Ha di Baumbach, in particolare per le somiglianze con la protagonista e per l’empatia che inevitabilmente si viene a creare. Emily Beecham interpreta con una fragile e seducente sicurezza una delle tante eroine della nostra epoca inadatte a stare al mondo, che preferiscono la compagnia solitaria di un serpente, e che tuttavia alla fine non rifiutano una cena che potrebbe essere riconciliante con gli altri ma soprattutto con sé stessi. Burns non impone una conclusione alla storia di Daphne: alla fine la vediamo passeggiare lungo la strada, forse più consapevole della direzione da prendere, forse con una gamba al di là del muro che ha eretto.