#TFF35 – En attendant les barbares, di Eugène Green

Se il cinema di Eugène Green fosse un libro questo suo nuovo film, nella sezione Onde del festival, potrebbe costituire un indice ragionato di tutto il suo lavoro precedente.

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Se il cinema di Eugène Green fosse un libro questo suo nuovo film, nella sezione Onde del TFF, potrebbe costituire un indice ragionato di tutto il suo lavoro precedente. Divenuto ormai di casa a Torino il regista più che naturalizzato francese, presenta quest’anno En attendant les barbaries, un film che è l’approdo di un laboratorio di attori che lo stesso Green ha tenuto a Tolosa l’estate scorsa. Il film quindi, nel bene e nel male, risente di questo approccio e si fa catalogo della sua precedente filmografia, non assurgendo sicuramente al ruolo di summa definitiva ruolo al quale, in fondo, forse neppure aspira, ma strumento vivente di una didattica dell’esistenza.

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En attendant les barbaries è quindi anche un film didattico, esplicativo ed essenziale, un catalogo ragionato al modo di Calvino che quindi è influenzato da

En attendant les barbares, Greenun approccio sempre razionale ai temi di cui si fa portatore. Ancora una volta il cinema di Green ritrova la sua tipica messa in scena e più che in altre occasioni, il suo sguardo si avvale di una frontalità tutta teatrale sempre perfettamente conforme all’impegno recitativo richiesto ai suoi attori. Nonostante questo Green muove la sua macchina da presa con una fluidità probabilmente maggiore rispetto al passato, pur fondando il suo racconto su una ricerca continua del primo piano dei volti dei suoi personaggi.
Sei persone bussano alla porta di una casa in cui vivono un mago e una maga. I sei chiedono protezione perché i social network annunciano l’arrivo imminente dei barbari.
Tutti vengono accolti a patto che ciascuno abbandoni il proprio telefono cellulare all’ingresso. Durante la notte i sei fuggiaschi rileggono e ripensano al loro presente.
L’azione del film si trova concentrata in un unico luogo e nella seconda parte il testo è quello di un poema medioevale il che favorisce l’abbandonarsi ad una teatralità ancora più accentuata che in passato struttura narrativa nella quale il cinema, solo apparentemente, svolge un lavoro sussidiario.

Il resto è condotto con la solita colta artigianalità da Green che attraverso un film minimo, nulla a che vedere con la magnificenza onnicomprensiva di La sapienza, continua En attendant les barbares, TFFa combattere la sua battaglia contro il cattivo servizio della minimalità culturale dei nostri anni, contro una superficialità di ogni riflessione sulla propria condizione. Un cinema che ancora una volta si mette in posizione contraria ad ogni spirare di vento ed è quasi un miracolo che un reperto del genere possa vedere la luce. Da un punto di vista di pura scrittura il solo avventurarsi tra le pieghe di un poema medioevale, che da solo occupa la seconda parte del film, costituisce un segno evidente della estraneità di Green ad ogni richiamo spettacolare che il cinema naturalmente porta con se. Nonostante questo, ancora una volta, l’impressione che si vive, guardando i film dell’anomalo regista francese (guai a dire americano|), è che il suo procedere non si attesta come frutto di un ascetismo culturale e sociale assoluto. Anche En attendant les barbares è un film che nonostante le sue anomalie e originalità formali e di scrittura, è pienamente calato nella nostra epoca e di questo definitiva si occupa. I suoi protagonisti costituiscono la cartina di tornasole del pieno calarsi del film nel nostro presente. La coppia in crisi matrimoniale, il senza tetto, l’artista senza ascolto e il personaggio politico sono espressioni vive del nostro tempo, immagini ricorrenti di una cronaca minima che diventa tessuto vivente delle nostre comunità.

Green sembra guardarle da lontano e volerle ridurre ad icone quasi naturalistiche, nonostante la recitazione antinaturalistica che chiede ai propri attori. Il suo lavoro estraeEn attendant les barbarespezzi di verità dalle falsità del cinema. Egli stesso, nei dialoghi del film, insiste su questo concetto di falsità che rispecchia la verità. Ancora una volta, quindi, il cinema di questo autore entra nelle crepe di una costante crisi culturale e sembra volerne riempire gli spazi ed è una certa ironia di fondo sempre presente e di cui si avverte l’essenza, che elimina ogni sentore di sermone che potrebbe appartenere a questa riflessione, estranea ad ogni moderna contemporaneità, anzi naturalmente contraria alle direzioni versi le quali quest’ultima sembra dirigersi. È così che il cinema di Green e questo film, forse più che altri, nonostante l’apparente sguardo rivolto ad un tardo passato, è perfettamente dentro le dinamiche sociali e ancora una volta l’utilizzo di attori giovani conferma l’apertura dell’autore verso il futuro, ma al contempo non possiamo non vedere che il suo cinema si trasforma in un allarme che condensa il rifiuto e la negazione di una effimera cultura che permea il nostro presente. Green lo vediamo quindi nei panni di una specie di mentore che nel testimoniare il senso del passato resta con i piedi piantati in questo presente sempre difficile da vivere.

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