#TFF35 – People Power Bombshell: The Diary of Vietnam Rose, di John Torres
Straordinario film che dona un senso alle (de)composizioni e alle ferite dell’immagine, opponendo uno sguardo politico sulle cose e facendo riemergere una “memoria collettiva” dall’oblio. Onde.
La memoria e l’immagine, il cinema e il potere, il tempo e le macerie. Si procede sempre per dense dicotomie addentrandosi nel nuovo cinema filippino. Ossia tra gli sguardi sul mondo di tanti giovani autori così diversi eppure capaci (in)volontariamente di strutturare uno dei “movimenti cinematografici” più vitali e necessari degli ultimi vent’anni. Del resto cos’hanno in comune Lav Diaz, Brillante Mendoza, Raya Martin, Sherad Anthony Sanchez, Adolfo Alix Jr, Khavn De La Cruz o John Torres? La risposta a questa domanda non va solo cercata (come accadeva per le vague novecentesche) in echi stilistici o simili approcci formali, ma più propriamente in una comune consapevolezza del dispositivo nel nostro tempo. Perché per ragionare sul complesso passato filippino si devono prima di tutto interrogare e interpretare le immagini: de-ideologizzarle e farle proprie, renderle cinema contemporaneo utilizzando tutti gli archivi come scarto verso il futuro e non come reliquia di un blindato passato.
The Diary of Vietnam Rose. John Torres entra in possesso del prezioso girato di un film (mai terminato per varie difficoltà produttive) di Celso Advento Castillo, tenuto nascosto per decenni dalla sua star Liz Alindogan e oggi “ritrovato”. Una pellicola graffiata, danneggiata, perforata dall’umidità, diventata quindi uno straccio di passato che crea nuove forme nel presente, riuscendo come nessuna ricostruzione finzionale a testimoniare un’epoca. Non un semplice rimontaggio quindi, non un classico found footage: Torres ha a disposizione scene del film ma anche vari momenti del set, quindi riconvoca alcuni attori superstiti e li fa incidere una traccia audio che commenti queste immagini strappate all’oblio, che manifestano un immenso debito non solo con il cinema ma anche con la vita di quelle persone. Insomma il cortocircuito tra inquadrature del passato e voci del presente, con riprese (indistinguibili) girate ad hoc diventa totale.
Facciamo ora un doveroso passo indietro. Molti dei più celebri viet movie americani (Apocalypse Now in testa) sono stati girati nelle Filippine, con attori filippini che diventano vietnaimiti sullo schermo recriminando però una loro identità sul set. “Voi state girando Platoon”? dice qualcuno… no, un film sul Vietnam tutto filippino è sempre la risposta. E ancora: “lo finiremo mai?” è la frase che torna ossessiva nelle parole di Castillo, della troupe, degli attori.
Insomma cosa possono dirci le immagini lacerate di un film non terminato più di trent’anni fa? Innanzitutto la nascita di un cinema nuovo oggi, che prenda in carico non solo emozioni, riflessioni e lotte dei giovani cineasti del 2017, ma che può portare avanti anche quelle di un cinema mai fatto (come in A Short Film About the Indio Nacional di Raya Martin) o mai terminato (come in Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III, di Kidlat Tahimik). Questo cinema meraviglioso dona un senso a quelle (de)composizioni e a quelle ferite, così simili al passato di un paese e di un popolo vessato da dominazioni e dittature, quindi impossibilitato a opporre sguardi politici sulle cose. Ecco: quello di Torres è uno sguardo politico. Il suo film associa con straordinaria lucidità il dramma dei vietnamiti in fuga (intento originario di Castillo), quello degli attori filippini nelle avverse condizioni del set di trent’anni fa (il backstage e i ricordi odierni) e poi il diario immaginario di Rose che riscrive (come Torres) il film per i posteri. Quindi ogni dinamica di potere – dalla guerra in Vietnam alle dominazioni Filippine – viene qui sabotata dalla penna di Rose, dalla caparbietà di Liz nel conservare queste tracce sino ad oggi e dallo sguardo “giovane” di Torres che rintraccia un’identità tutta filippina in ogni inquadratura di quel (e di questo) film. Straordinario.