#TFF36 – Angelo, di Markus Schleinzer
Angelo segna probabilmente la maturazione artistica di Markus Schleinzer che sceglie di affrontare una sorta di “Indovina chi viene a cena?” in costume e ambientazione storica
Presentato alla 36esima edizione del Torino Film Festival, Angelo ci racconta la storia vera di un “figlio dell’Africa”, Angelo Soliman, preso con la forza dalla sua terra natale in giovane età all’inizio del XVIII secolo. Dopo essere sopravvissuto al lungo viaggio involontario attraverso l’Atlantico, il ragazzo viene venduto a una contessa europea (Alba Rohrwacher) che lo trasforma nell’oggetto di un esperimento educativo. Per il suo prossimo proprietario, un nobile duca, il ragazzo si trasforma in un cameriere in costume, recitando storie sull’Africa misteriosa per intrattenere un’alta società illuminata, fino a quando non attira l’attenzione dell’imperatore. Raggiunta l’età adulta, Angelo raggiunge la sua importanza e presto diventa la mascotte della corte viennese.
Per il film che probabilmente segna la sua maturazione artistica, successiva al lungo “apprendistato” dal maestro Michael Haneke (e soprattutto alla consacrazione registratasi a Cannes nel 2011 con, tanto per cambiare, Michael), il regista Markus Schleinzer sceglie di affrontare questa sorta di Indovina chi viene a cena? in costume adottando uno stile simile a quello visto in Marie Antoinette di Sofia Coppola. Schleinzer però non si limita ad inserire elementi di modernità in un’ambientazione storica, ma passa ad uno step successivo, con inquadrature stranamente verticali a ricordare le ripresa di uno smartphone. Angelo appare più attuale che mai, però, non solo per la forma ma soprattutto per i suoi temi. Il concetto di diverso è al centro del racconto, che il regista riesce a trattare seguendo diverse ottiche, se non nuove, senza dubbio inusuali e per nulla banali. La discriminazione nel film è oltremodo stratificata, si sviluppa in più livelli, fino a quelli più insospettabili. In primo luogo c’è quella sociale, che sembra inizialmente subire la fascinazione nei confronti dello straniero, ma che nasconde in realtà un ben più deprecabile senso di superiorità, quasi in puro spirito coloniale ma dalle origini opposte.
Lo si intuisce meglio col punto di vista successivo, quello dei “tutori” di Angelo, che sembrano volersi differenziare dagli altri membri della corte per apertura mentale, nonché per umanità e affetto, ma che nel corso degli eventi finiscono con l’assumere il ruolo di “padroni”, facendolo poi valere fortemente quando questo viene minato. E così quegli aspetti che possono rappresentare un’evoluzione individuale e uno spirito progressista, come comprare una proprietà o sposarsi, vengono invece osteggiati con disprezzo.
L’intera esistenza del protagonista stesso, infine, non fa che rispecchiare questa duplice natura. Non è un caso che la vita di Angelo sia tanto legata all’arte, capace sì di elevarlo culturalmente come individuo, ma che paradossalmente finisce per imprigionarlo, alla fine quasi letteralmente. La sua arte attira proseliti solo perché viene da lui, non per l’arte in sé. Angelo diventa così un tutt’uno con essa, tanto da recitare continuamente davanti ai nobili un monologo che non fa altro che celebrare il modo in cui è stato sradicato dalla propria terra natia. Schleinzel compie qui il suo ribaltamento più riuscito: Angelo, interpretato da ben cinque interpreti differenti, finisce con l’essere semplicemente stanco di essere considerato diverso. Pur non essendo cresciuto in povertà, pur non avendo avuto un’esistenza misera per i canoni sociali, non riesce mai a sentirsi davvero libero. La sua lotta, pertanto, non ha più al centro la conquista di diritti civili, ma semplicemente il desiderio di esser guardato allo stesso modo di tutti gli altri. Cosa che tristemente non gli verrà mai del tutto riconosciuta.