#TFF36 – Atlas, di David Nawrath

Un noir sociale, un racconto regolato da rigide strutture che prova a guardare alle mutazioni delle società urbane tra desiderio di riscatto e affermazione della paternità. In Concorso

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Walter fa un lavoro infame. Con gli altri della ditta Grone si occupa di sgomberare appartamenti per cui è stato pronunziato lo sfratto. Roland Grone, il titolare, è un poco di buono, perché intrallazza con gli appartamenti che rivende a cinque volte del loro valore e per ottenere migliori risultati, si fa aiutare dalla malavita araba. Walter ha un passato burrascoso, è stato in galera e oggi alle soglie dell’età più matura, vive da solo e parla pochissimo. La Grone deve sgomberare un appartamento in cui abitano i due coniugi con il figlio ancora bambino. Jan, l’inquilino ha un diverbio con Massour un collega di Walter. Massour è un arabo manesco e omicida, un poco di buono e vuole vendicarsi delle offese subite da Jan durante il tentato sfratto. Walter prova a mettersi in mezzo, perché Jan è suo figlio che non aveva mai conosciuto e che a sua volta non lo riconosce. Sapremo che Walter era stato cacciata da casa dalla moglie, forse per la sua vita non proprio cristallina. Nonostante tutte le traversie che la vicenda vedrà, la vita di Walter è destinata a mutare.

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L’opera di esordio di David Nawrath, si fonda, come molte produzioni tedesche, essenzialmente sul racconto come sostrato fondante di ogni drammatizzazione. Il filo narrativo di questo film, così come accade per altri anche recenti (Opera senza autore, ad esempio), è assolutamente essenziale, non solo quale indispensabile elemento di sviluppo del soggetto, ma perché il percorso definito dentro il quale si sviluppa il film è in realtà l’unico punto di riferimento dello spettatore, non lasciando spazio, una storia così assorbente, ad altri appigli strumentalmente utili a definire i personaggi e il loro carattere. L’opera si avvale solo della narrazione dentro la quale si sviluppano o meno i sentimenti e nessuna altra divagazione cinematografica sembra potere trovare posto dentro queste strette coordinate narrative. Quindi, per adesso, dopo le immaginazioni degli anni ‘70/’80, il cinema tedesco si muove dentro queste direttrici essenzialmente narrative, che conferiscono ai film quell’ossatura rigida che, occasionalmente, può costituire un limite rispetto alle potenzialità del mezzo.
Anche David Nawrath procede così e senza fronzoli e orpelli definisce il suo Walter e lo scolpisce in una quotidianità raggelata, sempre uguale, senza passato e senza speranze per il futuro. Walter vive contromano il suo presente, con il suo carico di delusioni, di colpe e di conseguenti rimorsi. L’inatteso incontro con il figlio, che però non può riconoscerlo, cambia le sue prospettive e forse adesso ha una ragione per vivere, per riscattare il suo passato.

Atlas con il suo scandaglio urbano dentro una blindata comunità straniera, dedita essenzialmente al malaffare, si trasforma in un noir contaminato dalle incidenze del presente e si fa interessante e coraggioso il tentativo, va detto, riuscito, di definire anche i profili dell’associazione malavitosa, ormai imprescindibile nelle grandi città europee. Nawrath, con pochi tratti, ne definisce il profilo e sa restituirne la pericolosità.
Il racconto, procedendo nel suo sviluppo, si fa teso e anche appassionante e il suo crescendo drammatico è ben costruito con la solitudine di Walter che si scontra con la solidarietà malavitosa della famiglia del poco di buono Massour. Qui il film manifesta con chiara evidenza la sua reale natura di racconto volto a ridefinire il tema della paternità, che si amplifica laddove l’unico personaggio femminile dell’intero film è la moglie di Jan, l’inquilino sfrattato e minacciato, che però viene trattata da Walter così come accadrebbe in un rapporto filiale di amorevole cura. In questo panorama, dominato dalle caratterizzazioni maschili, con Atlas Nawrath prova riflettere quindi sul tema del padre che affronta sotto i vari profili e il loro vario atteggiarsi. Non solo Walter è padre, ma anche suo figlio Jan, ma è padre anche quello che implora affinché il figlio Massour venga ritrovato dopo essere misteriosamente scomparso, anche il collega di Walter avrebbe voluto essere padre e infine Walter è anche il nonno del piccolo Karl, che significa essere padre due volte.

Atlas porta a compimento il suo lavoro senza in verità farsi portatore di istanze di rinnovamento, ma facendo intendere di volere lavorare onestamente su un terreno che, seppure consueto, come quello del puro racconto, vuole lasciare spazio a queste interessanti variabili che Nawrath sa mettere in scena con precisa efficacia. Ne nasce un film in cui la messa a fuoco dei personaggi e soprattutto di Walter, è ben riuscita. Atlas con le sue suggerite atmosfere noir, accentuate da una non banale ambientazione urbana, senza alcuna pretesa di originalità, si fa portatore di interessanti varianti che attualizzano il profilo complessivo del genere filmico. L’introduzione esplicita del tema dell’immigrazione e della sua radicalizzazione sociale, secondo le spietate regole di malvivenza organizzata, lungi dal costituire un atteggiamento politicamente scorretto, va guardata come una presa d’atto di una contaminazione avvenuta che modifica i rapporti sociali, poiché le regole sulle quali prolifera la compagine criminale, restano estranee alle originarie società nelle quali si innestano. In questo senso il film, assume i profili anche di un noir sociale, in cui si ritorna certo sul tema del riscatto del protagonista, argomento però che resta stemperato dal desiderio di tratteggiare queste mutazioni che segnano le nuove società urbane alla luce dei mutamenti storici e sociali. Non sembri troppo, infatti è solo una traccia, ma esiste e si fa strada nel ricordo con una certa efficacia.

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