#TFF36 – I nomi del sig. Sulčič, di Elisabetta Sgarbi

Costruito come un labirinto di nomi e di storie, racconta il disastro dei sentimenti dopo le guerre, ma l’ambiziosa operazione rivela i suoi limiti. Festa Mobile.

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Dopo le riflessioni sul confine e lo sguardo ad un’Italia dimenticata attraverso le sue opere d’arte nascoste, Elisabetta Sgarbi intraprende la strada della fiction e il suo film I nomi del sig. Sulčič, ospitato qui a Torino nella sezione Festa Mobile, è il risultato.
Irena vuole ricostruire il suo passato e si fa aiutare da Ivana, una ricercatrice universitaria. Ai confini d’Italia, nelle valli del Po, Irena lentamente sembrerà riappropriarsi della propria vita. Durante questo faticoso viaggio che incrocia la fuga dai rastrellamenti nazisti nei confronti degli ebrei e le operazioni militari delle milizie del generale Tito, incontrerà Gabriele che l’aiuterà a scoprire il suo passato e anche lui dopo questa esperienza sarà costretto a rileggere per intero la sua vita.
Elisabetta Sgarbi con questo film, costruito come un labirinto di nomi e di storie, nel quale confluiscono, come di consueto, motivi personali, qui resi espliciti dalle presenze di Claudio Magris e del compianto Giorgio Pressburger, prova a mettere in scena, al contempo, la memoria come segno identificativo di luoghi, la storia di quella porzione d’Europa davvero ricca di culture, ma anche di scontri determinati dal loro tentativo di affermarsi l’una sulle altre e le vicende personali dei suoi personaggi che si infittiscono proprio su questo scenario così complesso.
Se ne trae che il piccolo film che in origine – forse – avrebbe dovuto essere I nomi del sig. Sulčič, e questo sembra evidente da un impianto minimale che probabilmente resta, nonostante tutto, efficace, in effetti tradisce un’ambizione più grande o almeno questo è il risultato che sedimenta dopo la visione.

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Il tema della memoria, soprattutto di quella collettiva, ma non è di meno quella personale quando il cinema si fa carico di raccontare con la sua falsità artistica le verità della storia, è un tema che a causa di una sua originaria complessità, richiede uno sforzo di semplificazione (non di riduzione ad una semplicistica finalizzazione) che renda lineare lo sviluppo narrativo. Necessità che si acuisce laddove il racconto è frutto di una successione e di un intreccio complesso di eventi storici.
I nomi del sig. Sulčič nella sua labirintica costruzione, che di sicuro nasce da una intima necessità da parte della regista di inserire ogni elemento suggestivo che la ha istintivamente legata alla vicenda, sembra smarrire, però questa evidente necessità e si preoccupa, piuttosto che alleggerire un impianto già di per sè non immediato, ma impegnativo se guardato nella sua prospettiva storica, di aggiungere elementi personali, temi narrativi ulteriori, sintesi progressive che fanno fatica a rendersi esplicite. In altre parole, il film sembra di continuo accentuare la struttura originariamente complessa del suo impianto e nel dedalo di trame che si aprono sembra perdersi in un racconto eccessivo che disperde le sue potenzialità.

Va comunque detto che I nomi del sig. Sulčič, pur nella sua fondamentale eccessività di senso e nella sua sovrabbondanza di tracce narrative e pur perdonando alcune incertezze di interpretazione, resta, al fondo un cinema in qualche modo congeniale a favorire l’alimentarsi del ricordo del passato in un mondo che tende a isolare i fatti della storia ancora recente, poiché tenuta viva dai testimoni, nel classico dimenticatoio della propria coscienza. In questo fare i conti con la storia e guardare alle vite dei suoi protagonisti, il film sa descrivere il disastro dei sentimenti che le guerre portano e sa raccontare il dissidio che non sembra potere avere fine, nonostante la rimarginazione di ferite. L’operazione naturalmente ambiziosa in parte è riuscita, ma per la parte restante, purtroppo, si perde nei rivoli di quella sovrabbondanza di temi e di argomenti. In ogni caso il film di Elisabetta Sgarbi contribuisce a riaprire argomenti che non possono essere dimenticati e a ricostruire un piccolo pezzo di una storia che appartiene alla memoria di questo Paese.
In questo senso, forse serve perfino, come canone dominante del film, che tutto lo caratterizza e tutto lo definisce, l’impronta quasi bellocchiana che la Sgarbi imprime. Il suo film, pur con i difetti di cui soffre, azzardiamo, sembra trarre vita anche dalla lunga e ininterrotta riflessione che il cinema dell’autore piacentino ha in tutti questi anni realizzato sulla storia d’Italia e, non sappiamo, quanto e soprattutto se coscientemente o meno, il film di Elisabetta Sgarbi sembra averlo ben metabolizzato e, con discrezione, omaggiato.

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