#TFF36 – Nothing or everything, di Gyeol Kim

Nothing or everything è l’opera prima di Gyeol Kim, presentato al Torino Film Festival all’interno della sezione Onde, un film sperimentale sul dolore della perdita e sull’agonia di chi resta in vita

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La perdita di riferimento spazio-temporale è una delle prime impressioni che si ricavano dal film coreano Nothing or Everything, opera prima della regista coreana Gyeol Kim, presentato al Torino Film Festival all’interno della sezione Onde. Con l’attraversamento di un bosco, luogo ideale ad una scissione esistenziale, pensiamo ad esempio alla foresta che circonda Twin Peaks o all’Eden in cui si rifugiano i protagonisti di Antichrist di Lars von Trier, si innesca un inseguimento coreografico tra due ragazze dirette verso un posto non precisato all’interno di un labirinto naturale.

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L’abbandono delle strade più battute, in favore di un sentiero che si replica nel suo anonimato di disordine similare, diventa presto un calvario, un’agonia senza fine apparente, la sospensione di un normale flusso di coscienza cui subentra un’apnea mentale semi catatonica. Il punto da raggiungere, vero obiettivo della ricerca, ed il motivo che determina l’azione in avanti, fino all’oscurità fisica e psicologica, restano a lungo celati, un mistero sostenuto da un presupposto narrativo di duplicazione, che attribuisce allo stesso personaggio una doppia identità, fino a suggerire anche con le parole, usate con il contagocce, la presenza di un fatto di sangue. Nel fitto groviglio vegetativo una ridotta profondità di campo, adotata dall’inizio alla fine del film, evidenzia un continuo controcampo dialogico tramite i volti ed i corpi delle protagoniste, con uno scambio pressocchè ininterrotto di infomazioni silenziose contenute in uno sguardo o in un gesto.

Lo scambio di ruolo nella cornice immutata favorisce lo sfasamento cronologico, e soltanto una progressiva risoluzione del rebus rivela la successione degli eventi collocandoli in un fuoco giusto di esposizione. Gyeol Kim con il ricorso destabilizzante di una camera a mano insiste sulla fisicità riprendendo dall’impercettibile e accennata variazione umorale, che trascina nel thriller, fino a tracimare nel macroscopico, con le deformazioni conseguenza delle strazio che lo avvicinano al mondo horror. Altra scelta coraggiosa è quella di rinunciare ad un qualunque supporto musicale optando per la diffusione dei suoni autentici e poliedrici di un qualunque bosco, con in aggiunta il tramestio incessante delle foglie calpestate durante il cammino, che avanza un’idea di infinito o perlomeno di punto di non ritorno, e l’angoscia tumultuosa di un grido che rompe l’armonia con la sua nota stonata, e fa crescere l’inquietudine.

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