#TFF36 – The Front Runner, di Jason Reitman

Reitman torna con un’opera solida che guarda alla tradizione liberal del cinema neohollywoodiano ma con uno sguardo fortemente contemporaneo, inscritto negli isterismi dell’era Trump e del #metoo.

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Dal 2018 al 1988 e ritorno. Per guardarsi indietro e trovare la falla, il punto di rottura che sembra aver condotto a quella progressiva vetrinizzazione sociale del privato, in virtù della quale abbattere idoli e sistemi, alla ricerca di una trasparenza totale impossibile da raggiungere.

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Jason Reitman, da sempre coerente cantore delle inquietudini e delle idiosincrasie del presente, piazza sull’obiettivo della sua macchina da presa il filtro del passato per raccontare l’oggi, l’ossessione per la morigeratezza che pretendiamo dai personaggi pubblici, politici, artisti – basta guardare le assurde polemiche riservate alla scomparsa di Bernardo Bertolucci… – per addossare loro le colpe di attenzioni morbose e voti sconsiderati.

Torniamo indietro: il senatore del Colorado Gary Hart è in corsa per le presidenziali, candidato favorito del partito democratico. Ha tutto quello che l’America vuole: credibilità, umanità, un aspetto rassicurante e kennedyano, una moglie e una figlia.  E poi le voci, che sfociano in una domanda di un giornalista del Washington Post: il suo è un matrimonio tradizionale? La risposta stizzita scatena i cronisti e nell’arco di tre settimane tutto il progetto politico di Hart viene travolto dalla debolezza privata dell’uomo, che dovrebbe rimanere tra lui e la sua coscienza. O forse no? Forse il popolo ha diritto di sapere? Reitman firma quasi il suo Twelve Angry Men, dove i giurati da strapazzare nelle loro convinzioni sono gli spettatori, presi in mezzo a una battaglia condotta tra il fronte della stampa – che incalza e addita – e quello dello staff elettorale, incaricato di ripulire lo sporco.

Dopo la fase “miracolosa” di Juno e Tra le nuvole, già dal disturbante Young Adult Jason Reitman sembrava aver imboccato la via dell’indie, dedicandosi a produzioni sempre più piccole. Qui torna con un’opera solida e corposa che, pur guardando inevitabilmente alla tradizione liberal neo-hollywoodiana dei film su giornalismo e campaign, dagli immancabili riferimenti a Pakula e ai suoi discepoli, dal Frost Nixon di Ron Howard alle Idi di marzo di Clooney fino al The Post di Spielberg, dei quali Reitman studia con perizia filologica struttura, personaggi e atmosfere, si concede affondi da western, con una continua reversibilità tra indiani e cowboy, assediati e assedianti.
In The Front Runner la maestria di Reitman nel sollevare quesiti morali, anche a costo di allontanarsi dai suoi protagonisti, di renderli sgradevoli benché sempre umani, ruota tutta attorno all’ossessione di un legittimo dubbio. Sarà la Storia a trovare la risposta. Ma in quel vicolo di Washington, di fronte a una porta di servizio, il mondo della politica, dell’opinione pubblica avrebbe iniziato un lento e inesorabile cambiamento.

Ed ecco il ritorno all’oggi. The Front Runner è veramente un film inscritto nel 2017/2018, negli isterismi dell’era Trump, delle fake news e del metoo. In un mondo ancora quasi interamente maschile, le poche donne del film assurgono dall’ingannevole marginalità dei loro ruoli alla funzione di implacabile coro greco. La moglie tradita e stoica di Vera Farmiga; la donna dello scandalo, la bionda Donna Rice, che Reitman per la prima metà dell’opera riprende sempre di spalle, come un sogno, un lampo fugace dagli esiti funesti, e le due figure speculari della reporter e della più giovane fra i membri dello staff di Hart. Sono loro il vero cuore del film, le vittime e le testimoni a cui rendere conto, le Figlie costrette a nascondersi in auto, a sfuggire all’assedio della stampa per gli errori dei Padri. Loro a sollevare e pretendere quel dibattito intorno al legittimo dubbio: è un errore privato? O una manifestazione di potere? In tal senso The Front Runner è un’opera dalla grande sensibilità femminile – oseremmo dire femminista se non temessimo reazioni esagitate – nonché il ritorno solido di un autore che, pur senza aver ancora firmato un capolavoro, ha saputo raccontare i peccati e le fragilità di questi anni con impareggiabile misura e saggezza, raccontando l’errore senza mai dimenticare o abbandonare l’umanità che l’ha generato.

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