#TFF37 – Algunas Bestias, di Jorge Riquelme Serrano

L’opera prima del regista cileno è il ritratto spietato di una famiglia che, rimasta bloccata su un’isola, vede affiorare tutti gli aspetti violenti che la corrodono. Concorso

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Una riunione di famiglia, superato l’effetto doveroso e i formalismi, può diventare un’esplosione di rancore, covato sotto cumuli e cumuli di ipocrisia. Figuriamoci cosa può avvenire quando questa convivenza è forzata, e, nel chiuso di quattro mura, l’atmosfera conviviale lascia subito il posto ad un’apnea di sofferenza, i volti si contraggono in una espressione infastidita e un ghigno tradisce tutta l’ansia del momento, comunicando insofferenza dietro una malcelata accettazione reciproca. Tanto succede in Algunas Bestias, opera prima dal sapore vagamente mitteleuropeo che vede tra i protagonisti anche Alfredo Castro, dove il naufragio sopra una piccola isola mette tre generazioni a confronto ed alza il livello di insofferenza di pari passo con la crescita della fame e l’emergere dello stress.

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Prima di un’inevitabile fuori rotta, nel disastro che accompagna la deflagrazione, la tensione scorre costante nei dialoghi pieni di silenzi e il non detto si trasforma in una delle soluzioni responsabili del conflitto. L’uso ricorrente di inquadrature fisse favorisce infatti un impianto narrativo di carattere teatrale, la dinamica dei corpi diventa stringente, le azioni si risolvono in una profondità di campo assunto come luogo deputato a gestire la crisi. Il tempo diventa una componente basilare, viene trattato con un incedere stanco ma inesorabile, la faccia statica della noia provoca una sensazione di prigionia.  La scelta di una location isolata, circondata dal nulla della natura improvvisamente ostile, in concomitanza della inevitabile resa dei conti, aumenta il senso di asfissia, e la riduzione degli spazi porta i contrasti ad un’automatica collisione. I comportamenti inqualificabili e i furiosi litigi lasciano comunque altre ferite, per un accumulo di dolore che sembra destinato a crescere indefinitamente.

Quello che emerge è il ritratto scabroso di un nucleo familiare spaccato in profondità dai fantasmi del rimosso, dominato da rapporti di forza intrisi di violenza psicologica, con un apice di orrore nel limbo scivoloso dello stupro minorile. Un modello di unione che per salvare le apparenze si disintegra, accetta di assecondare un atteggiamento omertoso ed evitare la vergogna, ma nel rifiuto della paura precipita nella nevrosi collettiva. Il tema del patriarcato ripropone secoli di soprusi, ammonisce su un costume mai veramente superato, e in una descrizione crudele dell’autorità cerca di delegittimarne i tratti ed avvertire di un pericolo sempre incombente. L’uso del chiaroscuro asseconda l’adattamento tetro, il senso del tragico corre lungo la direttrice di un’ombra tonale che ammanta luoghi, volti e gesti di un significato peccaminoso, ambiguo, e copre le bugie dei carnefici ed il dolore delle vittime della stessa lacrima di colore.

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