#TFF37 – Fin de siglo, di Lucio Castro

Al suo esordio, l’argentino Castro dimostra coraggio nella definizione di uno spazio sentimentale complesso e in balia del tempo. Il suo enigma diacronico, però, perde presto potenza. In Concorso.

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Tutto ha inizio quando Ocho, scrittore argentino installato a New York, si reca in viaggio a Barcellona per qualche giorno. Tra un giro in solitaria per le vie della città e una nuotata in spiaggia, Ocho nota Javi, spagnolo residente in Berlino, con il quale scatta un immediato interesse erotico consumato presto e senza pretese in una comune casa vacanze. Consuetudinario incontro d’amore “cotto e mangiato”, esaurito in fretta in un luogo transitorio e in un tempo che non richiede promesse al futuro. Quasi un contrattempo, situato tra una cosa e l’altra: l’incontro d’amore, il punto dell’estremo presente.

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Eppure, la storia tra Ocho (Juan Barberini) e Javi (Ramon Pujol) smette presto di ricalcare le consuete tappe di un rapporto sentimentale nel suo nascere. E si riavvolge all’indietro, tagliando il tempo narrativo della storia d’amore e smentendo di fatto anche il tempo del film. Lucio Castro inizia qui a incuneare, in modo via via sempre più perturbante, piani diegetici senza soluzione di continuità, disseminando talvolta segnali che sottolineino lo scorrere – indietro e in avanti – del tempo. Ritroveremo, dunque, i due personaggi in una sorta di vita precedente, con aspirazioni affettive diverse e prima di avere intrapreso i rispettivi percorsi lavorativi, quando il Duemila non era ancora sopraggiunto. Nondimeno, lo sguardo di Castro sembra in fondo sganciarsi da tali contingenze, mettendo in sospensione il racconto stesso e la sua presunta linearità, preferendo a quest’ultima uno spazio sentimentale, fatto di confronti, di danza, di quello che volevamo e non abbiamo avuto dalla vita nella sua evoluzione diacronica. La debolezza di questo tempo ventennale in movimento resta, tuttavia, la necessità di spiegarlo, perdendo così il suo stato di transitorietà; tradendo le ermetiche premesse iniziali del film, così come il suo spirito amoroso – nella fattispecie queer –, che cessa di viaggiare nello spazio-tempo per adagiarsi su un inverosimile smemoramento del protagonista. La bellezza è tutta nello sguardo gettato sulle briciole del cambiamento umano, che Castro – qui al suo esordio al lungometraggio – sembra disposto a sondare nei dettagli. Con un tributo finale esplicito ai luoghi antonioniani, attraversati, quasi consumati, dalle tribolazioni e dai passi dei personaggi, e ora svuotati della loro presenza ma stracolmi dei ricordi del tempo.

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