#TFF37 – Intervista a Cosimo Terlizzi

Il regista e artista visivo ha presentato nella sezione Onde il documentario diaristico dentro di te c’è la terra. La nostra intervista in esclusiva.

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Con il documentario diaristico Dentro di te c’è la terra, presentato al festival nella sezione Onde, il regista e artista visivo Cosimo Terlizzi prosegue la propria ricerca sul concetto di identità partendo dal racconto di due viaggi, uno su un’isola delle Eolie e un altro a Shanghai, mettendo a confronto l’ambiente naturale con il labirinto urbanistico e insieme ragionando sulle forme di autorappresentazione nell’epoca dei social network.

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Dentro di te c’è la terra si presenta come la chiusura di una trilogia formata con gli altri due documentari che hai realizzato, Folder (2009) e L’uomo doppio (2012), ma è evidente che si tratta anche di un dittico con Dei (2018), il tuo esordio nella finzione prodotto dalla Buena Onda di Valeria Golino e Riccardo Scamarcio. Perché i due progetti sono nati nello stesso periodo e condividono almeno le tematiche.

Certo, ma Dei per me rappresenta un cinema di prosa, dove il racconto è scritto e messo in scena in studio, che è un’altra dimensione. Mentre l’ultimo lavoro mi sembra più libero, legato a un cinema di poesia, un’opera en plain air, senza la macchina del cinema che ben conosciamo. Comunque sì, se la modalità diaristica si avvicina molto a quella dei primi due che hai citato, sicuramente Dentro di te c’è la terra ha qualcosa in comune con Dei sul piano interno del tema. In effetti, in Dei ho seminato questo rapporto conflittuale con le proprie radici e con la natura, con la terra. C’era una sorta di rinuncia che appartiene alla fase adoloscenziale, nella quale devi staccarti e andare via. E aveva a che fare con la mia storia personale perché io stesso ho lasciato la campagna per la città, quindi non c’era molto di metaforico. Sono andato indietro nel tempo perché mancava quel pezzo nel mio percorso, quella formazione che è propria dell’intera umanità e che ci rende ciò che siamo.

 

Infatti, mettendo a confronto i due film si intuisce la diversa funzione che hanno nella tua ricerca. Il romanzo di formazione diventa necessario per capire come si è arrivati dove siamo, ma è nel qui e ora che bisogna guardarsi intorno. In entrambi c’è la città, solo che in Dei era un vortice visto con gli occhi di un ragazzo, mentre in Dentro di te c’è la terra parli di labirinto. La prospettiva cambia perché sei un adulto che guarda il caos e lo razionalizza?

Sì, però vorrei sottolineare il fatto che Dei era incastrato in un sistema rappresentativo. Dentro di te c’è la terra è invece anarchia, non sapevo dove sarei andato a finire. La chiusura è arrivata come un oggetto d’altri, dai segni che ho incontrato sulla strada. Pensavo “Oddio, come faccio a chiudere una ricerca che va avanti da sei anni?”. Finché ho capito di aver trovato la chiusura e ciò è accaduto peraltro nel 2018, all’epoca dell’uscita di Dei, con un successivo anno per il montaggio. Dentro di te c’è la terra comincia con la citazione da un testo che si chiama A tavola con gli dèi, e con un momento sulle isole Eolie in cui vediamo un assurdo dialogo con l’eco. Il nuovo film, in qualche modo, prosegue il discorso di Dei ma è anche un po’ un ritorno. Mentre realizzavo Dei mi ero chiesto “Ma è possibile che io debba mettere in scena queste cose senza viverle?”. Ero quasi invidioso degli attori che recitavano nel mio film, e così ho deciso che in quel viaggio avrei ripreso a registrare delle esperienze, quella parte della mia vita che sta fra l’intelletto e l’irrazionale. E poi ormai la vita privata è sempre esposta sui social, quindi volevo parlare anche di questo tornando a una dimensione di mostrazione diretta della realtà, non filtrata da schermi e nemmeno strutture. Non è un lavoro protetto e, a differenza de L’uomo doppio che era già più ricercato nella post-produzione, questa volta non ho corretto né la fotografia né il suono. È crudo, ovviamente nei limiti. Anche con i titoli scritti a mano volevo togliere ogni filtro e capire cosa si riusciva a fare. Ma magari il prossimo lavoro sarà di un’altra fattura, non sono affezionato a queste scelte. Qui volevo un contatto diretto col mondo, soprattutto per staccarmi dall’esperienza di Dei e dalle sue strutture.

Se L’uomo doppio aveva a che fare con la conoscenza di sé e prendeva piede dalla suggestione, “Distruggi il tuo ego”, possiamo affermare che il nuovo film cerca invece di andare oltre, verso un contatto più vero con la natura, facendo suo il mantra “Guardati nella terra”?

L’uomo doppio ero riuscito a chiuderlo in realtà grazie a un’illuminazione, “conosci il tuo ego”, perché a un certo punto mi sono chiesto se distruggendo l’ego non si distruggesse anche la persona. Infondo è una componente fondamentale del corpo e della psiche, e quindi è importante assecondarlo o comunque capirlo perché la parte animale in ognuno di noi è interessante e viva. Quindi in Dentro di te c’è la terra ho indagato questo aspetto: noi siamo molto intelletto, anche moralistico, legato all’etica. E così ho voluto lavorare su questi tabù, soprattutto nel passaggio in cui il ragazzo africano e islamico viene a casa nostra, di una coppia gay, dove ho potuto studiare queste sovrastrutture culturali. Tu puoi metterti in scena, dare l’impressione di aver scelto chi essere, ma è la natura a farlo per prima, e questo l’ho capito solo mentre già stavo girando il film. L’ho provato sulla pelle. Si può filosofeggiare quanto si vuole, ma poi per capire le cose bisogna viverle.

 

Rispetto ai primi due film, in Dentro di te c’è la terra si riduce notevolmente la presenza di specchi. Ce n’è solamente uno, all’inizio, quando siete ancora in viaggio. Ed è peraltro anche molto piccolo, come se avessi voluto restringere la tua immagine in uno spazio che si avvicinasse a quello del telefono in cui ci specchiamo facendoci i selfie. Che ne pensi?

Considera che anche quando Martina, la ragazza che era con noi sull’isola, si fa un selfie, quello io lo considero uno specchio. Certamente liquido, o come direbbe l’ormai abusato Bauman: c’è una fluidità. Man mano sto tornando a un equilibrio del dispositivo. Ormai abbiamo così capito questo mezzo che non c’è neanche più bisogno di far vedere da dove sto riprendendo, e quindi non ci sono più gli estremismi di Folder, per esempio niente più Skype. Mentre qui esiste solo quello che stai vedendo, ma anche nel suono, perché ormai l’estetica è quella dei social ed è tutto un rimando a qualcos’altro. Quindi ho cercato di togliere ogni tipo di riflesso, inteso come filtro, a meno che non fosse strumentale a ciò che stavo raccontando. Per esempio, nel viaggio in macchina cerco di scimmiottare la posa da selfie e quella era la prima volta che mi riprendevo con questa modalità. In più, c’è tutto un discorso sul Narciso e sull’abitudine, il torpore in cui siamo immersi, come quando la ragazza si addormenta dopo essersi fatta un selfie. L’idea di sprofondare nella propria immagine.

 

Non hai mai pensato di integrare la realizzazione di Dei all’interno di Dentro di te c’è la terra?

Ci ho provato, ma mi è stato impossibile proprio per questo conflitto fra i due progetti. Dentro di te c’è la terra è davvero una liberazione da Dei, da quel compromesso con la macchina e dal racconto del passato. Poi è stato complicato dare un senso a questo puzzle e se ne L’uomo doppio avevo mostrato il mio contributo alla serie L’ispettore Coliandro, qui non ho trovato l’aggancio per far vedere la realizzazione di Dei dentro il nuovo film. Ho integrato i suoi personaggi in Dentro di te c’è la terra, ma solo a livello concettuale, mentre sul piano del dispositivo non mi è proprio riuscito.

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