#TFF37 – Jojo Rabbit, di Taika Waititi

L’autore neozelandese rinnova la sua idea di un cinema che riflette sulla narrazione e sull’identità dei protagonisti, osservando stavolta la Storia e il mondo con gli occhi di un bambino

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È nella forma del racconto ad altezza di bambino che Taika Waititi rinnova la sua voglia di giocare con i meccanismi del cinema: dopo il mockumentary di Vita da vampiro – What We Do in the Shadows e il blockbuster Thor: Ragnarok (uno dei pochi Marvel Movies a non aver subito la pressione dello Studio e a mantenere una sua veste autoriale) stavolta il modello è, per l’appunto, quello del film per ragazzi, usato però per raccontare tanto la tragedia del nazismo, quanto per riflettere ancora una volta sui canoni della narrazione che investe l’identità del suo protagonista. Ruolo in questo caso affidato al piccolo Jojo (la rivelazione Roman Griffin Davies), imbevuto di propaganda del regime nella Germania degli anni Quaranta, al punto da aver creato un amico immaginario che ha le fattezze dello stesso Adolf Hitler.

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La performance mimetica di Waititi, che interpreta il macchiettistico Hitler, sancisce la natura teatrale di una messinscena che guarda alla Storia (passata e presente) con lo sguardo naif del bambino che prende seriamente l’enorme campo giochi del mondo, salvo ritrovarsi escluso tanto dalla realtà, quanto dalla finzione: allontanato dalla gioventù hitleriana che lo considera un codardo ed è lieto di metterlo in panchina dopo un incidente che lo ha lasciato sfigurato, Jojo deve infatti vedersela anche con una madre collaborazionista che ha nascosto in casa una ragazza ebrea. Tutto è modulato attraverso un tono satirico e sopra le righe che si sposa all’idea di un mondo visto come enorme messinscena, dove i personaggi sono definiti in primis dai rituali (l’estenuante saluto al fuhrer) e poi dalle divise che indossano: le scarpe rosse della madre, le divise dei nazisti, le palandrane nere della Gestapo in cui rivediamo riflesse le creature oscure e sovrannaturali di Vita da vampiro.

Non a caso, quello che deve subire Jojo è un autentico processo di trasformazione, come le farfalle che contrappuntano il racconto. Il suo diventa così un cammino alla ricerca della verità più autentica, in un gioco di specchi e bugie che cercano di depistarlo dalla sostanza dei fatti e dall’autenticità degli affetti. Waititi costruisce sottotraccia un tappeto emotivo che da forma a legami non detti, a desideri sopiti, a lutti accantonati troppo in fretta solo per compiacere la macchina di una nazione che si vorrebbe perfetta, ma che invece è fragile come questo bambino spaesato, nazista ma “coniglio”, il cui amico immaginario è fonte di rimproveri più che di incoraggiamenti. Diventa così palese l’intento educativo (quello sì, da autentico film per ragazzi) a coltivare la propria individualità oltre gli steccati innalzati dalla Storia: una lezione che naturalmente si allunga fino al presente, a quasi cent’anni dall’elezione di Hitler a cancelliere, quando la realtà rischia sempre più di ripetere le sue teatrali dimostrazioni di nazionalismo.

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