#TFF37 – Prélude, di Sabrina Sarabi

A una prima parte più interessante, in cui si gestiscono bene le dinamiche fra il ragazzo e una coppia di studenti della sua scuola, ne segue una seconda macchinosa e insipida. In concorso

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Dicasi prelùdio l’introduzione strumentale a un componimento musicale di qualsiasi tipo e genere. In ambito formativo, si tratta di quella parte del brano che viene fatta suonare durante l’esame e sul quale si basa il giudizio del professore. Per il suo esordio nel lungometraggio, la regista tedesca Sabrina Sarabi sceglie di intitolare con questo termine la storia del giovane David, studente di pianoforte che aspira alla borsa di studio per la mitica Juilliard School di New York. Più nello specifico, il film mette in scena il momento subito precedente la decisione dell’insegnante che dovrebbe raccomandarlo, componendo una partitura di desiderio e frustrazione, follia e tensione, che rimandano senza molto nasconderlo all’immagine del musicista tutto genio e ossessione ampiamente mostrato nel cinema precedente su questi temi. Soprattutto, ci si trova a ripensare alla vicenda di David Helfgot, così come è raccontata in Shine (1996) di Scott Hicks. Mentre altrove l’autrice omaggia il Bernardo Bertolucci di The Dreamers (2003), anche se si tratta di quei momenti che esso aveva già “rubato” a Jules e Jim (1962) di François Truffaut e Bande à part (1964) di Jean-Luc Godard.

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Insomma, un’opera prima appassionata e divertita, diretta con intelligenza seppure scritta con un po’ di compiacimento e alla fine dei conti abbastanza scomposta. Inoltre, Prélude ha quella leggerezza rigorosa che può solo il cinema teutonico, e armeggia costantemente con i corpi dei suoi giovani protagonisti come se avesse fra le mani argilla fresca e non avesse paura di servirsene. Il ventiduenne Louis Hofmann, già protagonista della serie Netflix Dark, carica il suo aspirante artista di un’inquietudine a volte persino perversa, consapevole, come se sapesse di essere guardato e godesse nell’autodistruggersi tenacemente. Ed è qui che la pellicola di Sarabi perde di efficacia: David da l’impressione di essere una marionetta nelle mani di un demiurgo assetato di dramma, e finisce col mancare lo sviluppo sincero della sua tragedia. A una prima parte più interessante, in cui si gestiscono bene le dinamiche fra il ragazzo e una coppia di studenti della sua scuola, ne segue una seconda macchinosa e insipida, mal congeniata e mal ritmata. Comunque notevoli gli scambi di sguardi fra i due innamorati, lo stesso David e la ragazza soffiata all’amico, istanti dilatati senza mai stancare che dimostrano come al sentimento non servirebbero parole.

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