#TFF37 – Scream Queen! My Nightmare on Elm Street, di Chimienti & Jensen

Vera chicca della sezione After Hours, il doc su Mark Patton offre uno spaccato della Hollywood anni 80 e dei tabu che lo scult Nightmare 2, “l’horror più gay di tutti i tempi” solleva suo malgrado

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La rivincita di Freddy Kruger non è nulla rispetto a quella che si è concesso, a 35 anni di distanza, Mark Patton, protagonista del secondo episodio della saga Nightmare, A Nightmare on Elm Street Part 2: Freddy’s Revenge, nata sulla scorta del clamoroso successo del film originale, diretto dal Maestro Wes Craven.
Passato più o meno sotto silenzio come uno dei seguiti meno riusciti sulle gesta della creatura della notte dal guanto di forbice, che ha popolato gli incubi degli adolescenti dell’età reaganiana, Freddy’s Revenge doveva essere, nel 1985, il definitivo trampolino di lancio per la carriera di Patton, giovanissimo e biondissimo attore visto fino a quel momento in spot e pilot televisivi, ma già scelto da Robert Altman per recitare accanto a Cher e Karen Black in Jimmy Dean, Jimmy Dean, prima a Broadway e poi nella pellicola omonima.
Invece, il sogno diventa davvero un incubo a occhi aperti: le recensioni non solo stroncano il film ma parlano apertamente della performance gay di Patton, descritto come final boy dalle urla femminili, in quello che viene pian piano descritto come “il film più gay di tutti i tempi” mentre la carriera di Patton subisce una battuta d’arresto letale.

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Negli anni, però, lo spanking di una delle vittime sotto la doccia, l’inequivocabile danza dalle movenze sexy in cameretta, il cassetto chiuso con sinuosi colpi di natica (!) e la sequenza in un bar à la Cruising diventano immagini virali, con meme, screenshot, video che trasformano pian piano il flop in un piccolo cult e film manifesto della comunità LGBTQ.
Ed è da piccoli spazi off-theatre, dove viene proiettato quasi fosse un nuovo The Rocky Horror Picture Show, che Freddy’s Revenge risorge dalle sue ceneri e dà nuova popolarità a Mark Patton, fuggito nel frattempo in Messico, lontano da Hollywood e dai suoi veleni.
Scream Queen! My Nightmare on Elm Street è in fin dei conti la storia della sua vendetta nei confronti dello sceneggiatore David Chaskin, che all’epoca negò di aver scritto un film dal taglio omoerotico, attribuendone la responsabilità alla performance di Patton; la resa dei conti di una faida trentennale che vede lo scrittore dai sorrisi mefistofelici confrontarsi per la prima volta con l’attore sugli evidenti sottotesti gay dello script.


Ma i registi, Roman Chimienti e Tyler Jensen, fiutano nel racconto un interesse che va ben oltre i risentimenti personali e, pur coccolando la loro star-producer, che a tratti pare indulgere nell’autoritratto agiografico, alzano la posta offrendo uno spaccato della Hollywood di metà anni Ottanta, presa in mezzo tra sfrenato edonismo e tabu culturali.
Quella di Mark Patton diventa allora la vicenda esemplare di un ragazzo di provincia che arriva nella Grande Città e finisce per perdersi, come un Midnight Cowboy 
riscritto da Bret Easton Ellis e diretto da Ryan Murphy: gli inizi in un alberghetto malfamato a New York, i primi spot, il trasferimento a Los Angeles, l’amore col giovane divo di Dallas Timothy Patrick Murphy, con cui vive a due passi dalla villa di Madonna, poco prima che sul sogno hollywoodiano si abbatta la piaga dell’AIDS.
Sono gli anni in cui Rock Hudson sciocca l’America rivelando tramite il suo contagio la verità su un’omosessualità sempre taciuta e la libertà finalmente agguantata dalla comunità gay delle grandi metropoli viene travolta da un’ondata reazionaria che investe anche la produzione cinematografica.
Mutando rapidamente di tono, plasmando il proprio ritmo sui diversi materiali assemblati – ironico e rapido quando racconta il mondo folle delle convention di appassionati horror, ma puntuale nell’analisi storico-sociale del fenomeno – Scream Queen! My Nightmare on Elm Street alza il velo sull’ipocrisia di consolidate dinamiche economiche e commerciali che ancora oggi reggono l’industria hollywoodiana.
Quasi fosse un ulteriore tassello dell’imprescindibile Lo schermo velato, racconta le fobie di un decennio attraverso una parabola per certi versi paradigmatica e per altri eccezionale, dando conto dei radicali cambiamenti intervenuti nel frattempo nella cultura pop, finalmente pronta ad ascoltare le urla di un final boy. 

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