Sin señas particulares, di Fernanda Valadez

L’opera prima della giovane regista messicana ha una regia solida e sapiente ed è in equilibrio magnifico tra cronaca e tradizioni, tragedia e pessimismo. In concorso

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È davvero la faccia triste dell’America il Messico con le sue nuvole che non solo disegnano il cielo portando la pioggia, ma rabbuiano anche i volti dei suoi abitanti che sembrano avere sopportato di tutto. Fernanda Valadez, giovane regista messicana al suo esordio, firma la regia, solida e sapiente, di un film, che in equilibrio magnifico tra cronaca e tradizioni, tragedia e pessimismo, cammina su uno dei confini più martoriati del pianeta. Su quel confine segnato da un ennesimo muro che sembra gettare un’ombra di disumana volontà, diventando il confine dove finiscono i sogni e le speranze e comincia l’inferno.

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La scomparsa di due giovani, poco più che ragazzi, partiti per raggiungere gli Stati Uniti e scomparsi senza più notizie, spinge alla loro ricerca. Uno di loro, si scopre che è morto, dell’altro, Jesus, non si hanno notizie. La madre di Jesus, donna semplice e semianalfabeta parte alla sua ricerca, che sul confine con gli Stati Uniti finirà dopo avere conosciuto la profonda verità di una tragedia quasi inumana.

Sin señas particulares ha aperto il Concorso del 38° TFF, un film adatto a questa edizione anomala e necessariamente privata da ogni accenno glamour. L’avere riposto fiducia su un film così al contempo minimale nella sua fattura, ma così giustamente ambizioso nella sua concezione, sembra ricostituire quei canali, a volte interrotti, tra il Festival di Torino di qualche anno fa e le edizioni ultime, incerte tra un cinema strettamente d’autore relegato nelle isole ancora disponibili e un altro, invece, più accattivante e incline ad una patinatura piuttosto evidente. Il film di Fernanda Valadez ha dunque il pregio, non scontato, di restituire allo spettatore un racconto punteggiato da quella immane tragedia fatta di violenza e di disumana mancanza di ogni pietà che sembra scorrere lungo quel confine, regno di predatori senza scrupoli e di trafficanti la cui crudeltà la ritroviamo già narrata nelle pagine di Cormac McCarthy o nelle immagini delle decine di film che hanno raccontato le violenze che si consumano in quel lembo di terra senza che alcuno abbia la volontà di scardinare il potere assoluto e malvagio, demoniaco, che imperversa. La giovane regista, che si avvale di un cast e di maestranze quasi tutte al femminile, sa ammantare il suo film di quel dolore sordo, materno e universale che attraversa la storia, sa lavorare con ottime soluzioni di regia su una memoria che diventa racconto oscuro e intrappolato in una rete di immaginazione che si fa mondo reale nella sua narrazione per immagini, sa riportare il presente dentro la tragedia classica in un gioco di incastri in cui i personaggi sembrano guidati da un destino già scritto come il fato di una tradizione antica. Sin señas

particulares diventa un libro aperto, ma non è del tutto lampante la luce che getta su questa cronaca che diventa quasi inespresso dolore, come è giusto che sia, guardando non solo alla tragedia del presente, ma dentro una storia centenaria che vede un popolo incapace di trovare una propria libertà e quindi una propria identità. Il film proprio per questo sembra degradare con sapiente dosaggio da un realismo inquietante (i sacchi neri, i cadaveri, il maleodorante ambiente delle loro ultime dimore), man mano verso una dimensione più intima che non solo costituisce immersione dentro la coscienza dei suoi protagonisti, ma diventa scandaglio di un modo interiore che sembra farsi collettivo. È proprio la magia visiva di certe sequenze a restituire questa impressione. Sequenze che sembrano ridisegnare i confini dei luoghi e attribuire al cinema, con grande ed estrema fiducia nel mezzo, la forza di mutare il dramma in visione estatica. Il Messico ancora una volta ci offre un’immagine fatta di cupa violenza, di morte diffusa, di arena di scontro tra ideologie, ma non più politiche quanto invece disumane, legate più al potere sull’uomo che ai soldi che dominano quelle azioni. Una tradizione antica che si perpetua, uguale nelle intenzioni e nei modi che non prevedono pietà e sentimenti. La cruda e inattesa violenza del finale, che ricorda La donna che canta, in un passaggio che diventa espiazione dalla colpa, ha il sapore, al tempo stesso, di manifestazione di una tragedia senza fine che diventa catastrofe di ogni umanità e Fernanda Valadez non sembra che coltivare un pessimismo che non ha soluzione e guardare ad un futuro occluso dall’ombra di un muro dentro la cui oscurità il demonio trama indisturbato.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.67 (3 voti)
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