#TFF40 – La giunta. Intervista ad Alessandro Scippa

Il regista ci ha raccontato in esclusiva la genesi e lo sviluppo del suo documentario presentato al Torino Film Festival all’interno della sezione “Dei conflitti e delle idee”.

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Nel 1975 Maurizio Valenzi viene nominato sindaco di Napoli ed è il primo comunista nella storia della città partenopea e, nonostante in pochi scommettano sulla sua giunta, governa con grande capacità amministrativa la città fino al 1983, portando avanti innovative politiche sociali per contrastare gli enormi problemi che affliggevano Napoli.

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Il ritratto di quegli anni di grande fermento sociale e culturale viene tratteggiato dal regista Alessandro Scippa che lega una vicenda collettiva ai tanti racconti individuali di uomini e donne che fecero parte di quelle giunte cercando, per la prima volta, di fare politica partendo dal basso. Il suo documentario, dai tratti fortemente personali, è stato presentato al Torino Film Festival all’interno della sezione “Dei conflitti e delle idee”.

 

Partiamo dalla genesi del progetto: come nasce e si sviluppa La giunta e per quale motivo ha voluto utilizzare la forma narrativa del documentario per raccontare questa storia?

Erano anni che avevo voglia di raccontare l’esperienza di mio padre nelle giunte dell’amministrazione Valenzi. È stato prima assessore alle finanze perché era un economista e poi al traffico. Sono partito anche da un’urgenza perché sapevo che mio padre versava in uno stato di salute abbastanza traballante. Si trattava del bisogno di raccontare quegli anni formativi per me perché comunque stiamo parlando di un periodo che va dai miei 7 miei 15 anni, quindi avevo anche voglia di raccontare cosa è significato per me, come per altri ragazzini della mia età, crescere negli anni ’70 all’interno di una famiglia di attivisti comunisti. In particolare, anche l’assenza dei genitori che sacrificavano gli affetti familiari per una “famiglia più grande” che era quella del Partito Comunista. Ho usato questo pretesto per raccontare una generazione di comunisti che consideravo e considero persone perbene e competenti. La giunta nasce da questo desiderio ma anche dal desiderio di raccontare una figura mitica come Maurizio Valenzi.

 

Il suo è un documentario ricco di testimonianze nostalgiche di una precisa stagione politica, sociale e culturale vissuta dalla città di Napoli. Diceva che all’epoca aveva all’incirca sette anni. Qual è il suo ricordo, la “sua testimonianza” di quegli anni speciali?

Il mio, è un ricordo evidentemente emotivo anche perché all’epoca ero troppo piccolo per riuscire a capire ed elaborare un’analisi politica. Quindi i miei ricordi sono legati alle mie emozioni e poi ci sono delle cose che non ho detto io ma che ho fatto dire, per esempio, a Federico Geremicca, figlio di Andrea che, in qualche modo, fa le mie veci durante il film. Quando afferma che durante l’ora di religione doveva abbandonare la classe, si tratta di un qualcosa che ho vissuto anch’io e, come me, tanti altri figli di comunisti non battezzati. Ora ci fa ridere questa cosa ma all’epoca la vedevamo quasi come una discriminazione. Lo stesso Federico, inoltre, parla delle assenze in casa sia di suo padre, sia di sua madre e lui era più grande di me, quindi già all’epoca riuscì a giustificarle, a comprenderle. Per me è stato un percorso un po’ più lungo. Infine, c’è un importante aspetto emotivo nel film. È una cosa che voglio cercare di comunicare anche perché oggi la politica sembra molto distante dalle emozioni, dalle passioni della gente. Così come dall’estetica… Ecco, un’altra cosa che abbiamo cercato di realizzare nel film è la rappresentazione della bellezza della politica in quel periodo e anche la ricerca di questa bellezza mi pare una cosa molto distante dalla politica di oggi.

 

Maurizio Valenzi è stato uno dei rappresentanti più carismatici e popolari del PCI: un partito che in quegli anni raggiunse l’apice di consensi (circa 12 milioni di voti alle Politiche del 1976). Dalle testimonianze raccolte nel suo film emerge una grande nostalgia per un partito forte, compatto ma soprattutto in grado di raccogliere le istanze delle persone.

Credo che una delle caratteristiche della politica del PCI dell’epoca fosse la vicinanza nei confronti delle persone, che cominciò già nel 1973 a Napoli quando ci fu l’epidemia di colera. Le sezioni del PCI si misero subito a disposizione per la somministrazione dei vaccini mentre la classe dirigente che c’era in quel momento a Napoli scappò. Quell’idea di politica veicolava anche un’assunzione di responsabilità rispetto ai cittadini che si tradusse, poi, nel successo elettorale alle amministrative del 1975. C’è da dire che non fu solo una vittoria isolata alla sola circoscrizione di Napoli. Fu una vittoria del PCI in tutta Italia. E credo che quel successo elettorale del PCI partisse proprio da questo forte legame con i cittadini e alla sua grande capacità di ascolto. Mio padre, ad esempio, mi raccontava che, quando si doveva discutere il bilancio da portare in consiglio comunale, lo si faceva prima con i consigli di circoscrizione, ossia con i cittadini. Quella vicinanza oggi è un concetto che non esiste più. Spesso si fanno documentari di argomento politico che tendono ad essere critici, cercando di raccontare la cattiva politica, le sue deviazioni. Io, invece, ho cercato di privilegiare il lato positivo. È vero che anche nelle giunte Valenzi sono stati commessi errori, ma volutamente ho cercato di non raccontarli anche perché non volevo fare un film inchiesta, ma solo riprendere quel filo formato dalle cose buone che furono fatte all’epoca.

Definisce definitivamente conclusa per la Sinistra italiana una stagione politica come quella degli anni ’70?

Mio padre è mancato agli inizi di settembre e devo dire che mi sono ritrovato a vivere un lutto personale legato indissolubilmente a quello pubblico: quello della morte della sinistra italiana. Però, credo che nel lutto esista una modalità per cercare di affrontarlo. E che consista nel riaprire una finestra sul passato. È una cosa che i comunisti hanno sempre fatto: guardarsi indietro per andare avanti, tenere sempre presente la storia che abbiamo alle spalle per costruire o, quantomeno, provare a costruire e immaginare un futuro diverso. Io partirei da un’esplorazione del passato e spero che, con questo film e magari non solo col mio lavoro ma anche con altri lavori di argomento politico, si provi a stimolare nei più giovani una curiosità verso quel periodo, verso quelle idee. Ho anche una nostalgia di quei momenti in cui si stava tutti insieme e si aveva la sensazione di essere un corpo sociale unico e che, in questi anni ancora di più col lockdown con la pandemia, si è completamente persa. Allora si stava in piazza per degli ideali ed era una cosa fenomenale. Ci si sentiva un corpo sociale unico e questo, secondo me, è il bello della politica di cui si parlava prima.

 

Prima ha affermato che è necessario stimolare nei più giovani una curiosità verso la speranza che si respirava in quegli anni. Non crede che la grande differenza tra le generazioni di allora e quelle di oggi sia proprio la mancanza di speranza e fiducia nel futuro da parte dei giovani di oggi, spesso consapevoli di non poter cambiare il mondo attraverso le proprie azioni?

Quei ragazzi avevano proprio la sensazione palpabile che il cambiamento fosse a portata di mano e questa speranza era un sentimento assolutamente diffuso. Io credo, però, che queste sono cose che vengono costruite anche da un contesto. Si arrivava dal ’68, da quegli anni fenomenali. Gli anni ’70 spesso vengono raccontati come quelli di piombo, come anni bui. Quello che ho cercato di fare è raccontare il controcampo di quel tipo di narrazione, inquadrando da una prospettiva diversa quegli anni pieni di speranza verso il futuro che oggi non c’è più. Al di là della pandemia, della guerra in Ucraina che sono ovviamente delle mazzate che tolgono proprio l’idea di futuro, ancora prima della pandemia, veniamo dall’assenza di un sentimento di sinistra che significa anche un un’idea di futuro che si aveva allora ma che oggi non hanno nemmeno i genitori della generazione Z. Se non ce l’hanno loro, come possono averla i più giovani? Ma la speranza è un sentimento scomparso dagli inizi degli anni ’80, nei quali questo paese purtroppo ha vissuto dei drammi importanti. In primis, l’uccisione di Moro e la conseguente fine delle possibilità di un compromesso storico e di necessari cambiamenti a livello nazionale. Mi rendo conto che oggi, soprattutto per chi è giovane, è un momento drammatico in cui ci si sente schiacciati da un presente buio. Io, per quello che so fare, provo a raccontare loro almeno la speranza che abbiamo vissuto negli anni ’70.

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