#TFF40 – La memoria del mondo: incontro con Mirko Locatelli e il cast

Regista e cast presentano alla stampa il nuovo film. Un progetto di ombre, che ragiona di identità smarrite, eredità e tracce da far riemergere. Sezione Nuovi Mondi

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“Il film nasce dall’esigenza di parlare del tema dell’identità, in particolare dell’identità negata. È un film sospeso tra letteratura e arte; fra l’arte contemporanea e la letteratura mediocre di un biografo che cerca di raccogliere i pensieri e raccontare la storia di un vecchio artista, trovandosi poi impantanato nella sua narrazione perché di fronte alla scomparsa di una donna si ritrova in qualche modo protagonista di una ricerca che non gli apparteneva”.

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Sono le parole del regista Mirko Locatelli (I corpi estranei, Isabelle) ad aprire l’incontro di La memoria del mondo, che si è tenuto questa mattina al Torino Film Festival dove, oltre al cineasta italiano, sono stati presenti la compagna sceneggiatrice Giuditta Tarantelli, gli attori Fabrizio Falco, Maurizio Soldà e Fabrizio Calfapietra, il produttore Paolo Cavenaghi e Federico Pedroni, in rappresentanza di Rai Cinema.

Il lungometraggio, presentato nella sezione Nuovi Mondi, segue il personaggio di Adrien, studioso d’arte e biografo di Ernst Bollinger e immerge pubblico e personaggi in un’esperienza di pellegrinaggio ed esplorazione, fra territori sconosciuti e acqua.

“Io e Giuditta per prima cosa abbiamo frequentato i luoghi in cui avremmo voluto ambientare questo film”, racconta ancora Locatelli, “e ci siamo trasferiti per un periodo nei luoghi di acqua che mostriamo. E subito abbiamo capito che l’acqua avrebbe tenuto a galla i personaggi; l’acqua ti costringe a trovare un equilibrio. Partire dalla memoria era importante, perché l’acqua è qualcosa che consuma e cancella le tracce. E questo è un film sulle tracce, sulla necessità di farle riemergere”.

Una centralità acquatica sottolineata anche da Fabrizio Falco che mette in risalto l’importanza di una “superficie riflettente che restituisca l’immagine di ciò che sei”, all’interno di un racconto in cui “i personaggi si perdono e la perdita si declina in maniera differente a seconda delle caratteristiche dei personaggi stessi”.

Un film “rigoroso” per usare le parole di Maurizio Soldà. Un film che ragiona di simboli e che, evidenzia Locatelli, “parla di ombre, non di corpi e fotografa l’uomo che si perde in una natura molto più grande; l’habitat è il quarto personaggio, un po’ come nel romanticismo decadente di fine ‘800″.

E a chi domanda la ragione che si cela dietro a ciò che di triste e “brutto” viene mostrato nel film, Giuditta Tarantelli risponde in questi termini: “L’idea nasce da una riflessione sull’eredità che lasceremo al mondo. Ad un certo punto tutti si chiedono cosa rimarrà di loro e noi abbiamo provato a riflettere in antitesi rispetto alla contemporaneità. Oggi Cerchiamo sempre di mostrare agli altri il meglio, anche modificando la realtà per tagliare le parti brutte; noi invece abbiamo cercato di dire che se vogliamo riflettere davvero su noi stessi c’è anche una componente brutta che fa parte di ciò che è reale, anche se spesso tentiamo di sublimarla”.

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