The Accountant 2, di Gavin O’Connor

A nove anni di distanza, si ritorna al personaggio del Contabile. E finalmente si liberano le sue potenzialità emotive. Forse il concentrato perfetto delle figure che percorrono il cinema del regista

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OPEN DAY FILMMAKING & POSTPRODUZIONE: 23 maggio

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SPECIALIZZAZIONI: la Biennale Professionale della Scuola Sentieri selvaggi

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Erano cinque anni, dai tempi di The Way Back, uscito in piena pandemia, che Gavin O’Connor aveva fatto perdere le sue tracce. Sembrava essere entrato anche lui in quella specie di zona d’ombra in cui si trovano a vivere molti dei suoi personaggi. Per carattere o penitenza, scelta o destino. Falliti, latitanti, uomini del mistero, fantasmi del passato, alcolizzati, vecchi paralizzati dal rimpianto e figli divorati dalla rabbia… O persone affette da disturbi dello spettro autistico, come Christian Wolff, il misterioso Contabile delle organizzazioni criminali. Che nella sua apparente anaffettività, con la sua chiusura e difficoltà di interazioni sociali, potrebbe essere la radicalizzazione di un tipo, assomigliare al concentrato perfetto di molte figure del cinema di O’Connor. La condanna della solitudine. Ed è questa la traccia fondamentale di The Accountant 2. Che si esplicita in tutta la sua evidenza in quella scena ironica, ma amarissima, in cui il Contabile, vestito di tutto punto, si presenta al raduno per single, dopo aver provveduto a manipolare il suo profilo e a “massimizzare” l’interesse da parte delle donne in cerca di un’anima gemella. Ovviamente invano. Ma la solitudine non è, certo, un problema esclusivo di Christian Wolff. Riguarda, in un modo o nell’altro, tutti i personaggi del film. Il fratello killer Braxton, che, non a caso, è alla disperata ricerca di un cane che gli faccia compagnia. La temibile Anaïs, trasformatasi in una macchina da guerra dopo esser scampata ai soprusi e alle violenze dei trafficanti di immigrati clandestini. Un po’ tutti i bambini del film, i piccoli geni che si ritrovano all’Harbor Neuroscience Institute o quelli che sono imprigionati nei campi profughi di Juarez. E riguarda perfino i personaggi che potrebbero sembrare più “integrati”, come l’agente del Dipartimento del Tesoro Marybeth Medina. Insomma, la solitudine è condizione comune. Ed è quasi lacerante vedere come tutti, pur tra ombre, misteri e contraddizioni, anche nelle illusioni di un mondo iperconnesso, siano alla disperata ricerca di un contatto reale, concreto, vero. A cominciare dal Contabile, che, sebbene a fatica, cerca di squarciare il velo oscuro.

Insomma, Gavin O’Connor e lo sceneggiatore Bill Dubuque sembrano finalmente in grado di liberare le potenzialità emotive del loro personaggio e del suo mondo, che nel primo The Accountant erano ancora imbrigliate dalle esigenze di una scrittura obbligata a spiegare e motivare caratteri e situazioni. A nove anni di distanza, riscoprono un altro uomo, pur con tutti i suoi problemi e i suoi tentennamenti, e una specie di calore più intenso tra gli ingranaggi della macchina da guerra di un cinema che si gioca sul ritmo dell’azione. E soprattutto Gavin O’Connor rimette al centro la sua ossessione per i legami di sangue e i rapporti tra fratelli, che nel primo film era rimasta come una nota a margine, quasi un colpo di coda. Quell’incandescenza delle dinamiche di relazione, che aveva raggiunto il suo punto di ebollizione più alto in Warrior. Certo, The Accountant 2 non raggiunge la stessa intensità devastante, anche perché O’Connor sembra voler stare sul presente, senza scoprire troppo. Eppure, tra gli estenuanti scontri e gli improbabili slanci tra Ben Affleck e Jon Bernthal, c’è qualcosa di autentico e profondo che continua a risuonare anche quando le necessità spettacolari del plot fanno più rumore. Persino là dove si avverte il peso dell’urgenza dei temi (l’immigrazione clandestina) o un’ombra di retorica nell’affermazione di una possibile rivincita della sindrome del savant. Sarà che dietro la recitazione nevrotica di Bernthal rivedi i segni del caos familiare di The Bear. O sarà, ancor più, la maturità del corpo appesantito e del volto dolente di Ben Affleck (anche produttore del film, con Matt Damon). Ma fatto sta che sul finale si fa strada anche una malinconica commozione. Che assomiglia a una promessa di normalità. Dopo tutto questo sangue.

 

Titolo originale: id.
Regia: Gavin O’Connor
Interpreti: Ben Affleck, Jon Bernthal, Cynthia Addai-Robinson, J.K. Simmons, Allison Robertson, Daniella Pineda, Robert Morgan, Grant Harvey, Andrew Howard, Yael Ocasio, John Patrick Jordan, Cassandra Blair, Nik Sanchez, Michael Tourek
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Durata: 124′
Origine: USA, 2025

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
3 (1 voto)

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