The Art of James Cameron – Incontro con il regista
L’autore di Avatar e Titanic ha tenuto una masterclass a distanza per il pubblico torinese dove ha raccontato la sua passione per l’arte e per la creazione di nuovi mondi

Mentre la mostra The Art of James Cameron continua il suo percorso all’interno del Museo Nazionale del Cinema di Torino, il regista di Terminator e Titanic in questi giorni ha ricevuto il premio Stella della Mole e incontrato “a distanza” (da Wellington, in Nuova Zelanda, dove è al lavoro su Avatar 3) il pubblico torinese in una masterclass nella quale ha raccontato la sua passione per l’arte e per la creazione di nuovi mondi.
Cresciuto negli anni ‘60, in piena guerra fredda, racconta di essere sempre stato un avido lettore di fantasy e fantascienza, ma non solo: “Mi piacevano moltissimo anche i supereroi Marvel, gli horror, i fumetti e artisti come Frank Frazetta. Cercavo delle immagini che potessero stimolare la mia immaginazione. Naturalmente all’epoca non c’era tutta la quantità di immagini che c’è adesso, non c’era Internet. Però c’era il fantasy, la fantascienza e così via. Erano gli anni ‘60 e c’erano molte proteste contro la guerra in Vietnam, i diritti civili e così via, quindi la realtà che mi circondava era diversa, sembrava quasi distopica. Vivevamo nell’ombra di una guerra atomica, e tutto sembrava rischioso, pericoloso. Perciò ero attratto da questi mondi migliori che potevo leggere nei libri, in alcuni romanzi e in alcune opere di grandi disegnatori e scrittori”.
Tutte queste influenze sono confluite in seguito nel cortometraggio Xenogenesis, prima opera da regista di Cameron (ma anche sceneggiatore, montatore e supervisore degli effetti visivi): “Avevo deciso scrivere qualcosa in cui inserire qualsiasi idea mi passasse per la mente: incontri con civiltà aliene, ecosistemi alieni, animali strani, specie intelligenti ma anche specie non intelligenti. Mi sono reso conto che tutte queste cose già esistevano, semplicemente in un altro ambiente, perciò dovevo solo metterle insieme per poter sviluppare il mondo che avevo in mente. E naturalmente a tutto questo dovevo aggiungere anche una storia d’amore”. Xenogenesis è stato il primo passo per iniziare a lavorare a Hollywood, ma è stato anche fonte di ispirazione per quello che Cameron definisce il “progetto di una vita”, Avatar: “Quando fondai Digital Domain, con la quale volevo sviluppare nuovi modi per creare personaggi utilizzando la computer grafica, mi sono ritrovato con i disegni di Xenogenesis e ho deciso di sviluppare una storia diversa, incorporando quegli elementi in Avatar”.
Secondo il cineasta la chiave per creare nuovi mondi è l’intimità: “Più costruisci un mondo, maggiore è la tua responsabilità per cercare di capire esattamente come sarà il mondo e le creature. Devi rimanere fedele ai personaggi, in modo che il pubblico sia in grado di empatizzare con questi personaggi. Questo è il lavoro che faccio con gli artisti che lavorano con me. Magari ci sono mille persone a lavorare sul film, ma c’è un team principale di poche persone che seguono fin dall’inizio il flusso delle mie idee: production designer, scenografi, il direttore della fotografia e gli attori, naturalmente. Ci deve essere una specie di intimità mentale ed emotiva con gli artisti, devono riuscire a capire il personaggio, cosa prova lui e cosa provo io in quel momento. Per questo essere un artista è importante: non si può avere una rappresentazione visiva, un’immagine, senza una storia che la supporti. Le immagini sono funzionali alla storia, sono un ponte tra l’immaginazione e il prodotto finale”.
Nel caso di Avatar, per esempio, fondamentale è stato il lavoro tra Cameron e Zoe Saldaña per lo sviluppo dei Na’vi, il popolo alieno che popola Pandora: “Volevamo che i Na’vi si muovessero in un modo specifico, che non fosse totalmente umano, quindi abbiamo creato una postura, un modo di muoversi e di sedersi diverso. Volevamo avere un repertorio quasi fisico dei loro movimenti, quindi abbiamo sviluppato prima un linguaggio, poi una lingua e in seguito anche la pronuncia dei Na’vi. Lei era anche una ballerina, aveva quindi la fisicità, i movimenti felini della danzatrice, la grazia. Abbiamo lavorato su tutto, abbiamo fatto prove prima prima di passare al processo di performance capture. È molto importante sviluppare una specie di coerenza, per quanto riguarda il movimento dell’attore o dell’attrice, quando si arriva alla performance capture”.
Il regista ha infine raccontato la propria esperienza con John Carpenter, con cui ha collaborato per 1997: Fuga da New York come tecnico degli effetti speciali: “Carpenter era famoso ma continuava ad avere dei budget piuttosto limitati, e noi eravamo degli esperti di effetti visivi che non vedevamo l’ora di lavorare. Carpenter per me era un modello di riferimento perché era arrivato dal nulla, aveva fatto così tanto con pochissimo denaro. Io volevo diventare come John Carpenter. Ricordo che lo vedevo lavorare, era focalizzato, veloce, e anche noi dovevamo essere veloci. Dovevamo utilizzare il nostro talento e inserirlo in quella specie di quadro che era il suo mondo. Noi avevamo più immaginazione, lui era invece più squadrato”.