The Art of Self-Defense, di Riley Stearns

Uscito a luglio negli USA, è un racconto minimale che poco concede allo spettacolo, ponendosi, sin da subito, come sguardo consapevole sui margini della collettività. Con Jesse Eisenberg

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L’impostazione narrativa è quella di un racconto minimale che senza picchi, poco concede allo spettacolo, ponendosi, sin da subito, come sguardo consapevole sui margini della collettività, ma con un occhio che guarda alla specificità individuale e alla sua relazione con il mondo, piuttosto che allo sviluppo di un discorso che coinvolga l’intero corpo sociale. Stearns con il suo cinema sembra appartenere ad una corrente di pensiero che esclude il tema della socialità come corpo unico e vitale e si rivolga soprattutto al racconto di solitudini inguaribili e desolate esistenze testimoniando della loro realtà grigia e monotona. Fino ad ora i racconti di Riley Stearns hanno affondato le mani dentro la psicologia dei personaggi, di quei protagonisti che vivono da isolate monadi sociali dentro un sistema che ne produce, in automatico il rifiuto, proprio perché deboli, incapaci di reagire alla loro costitutiva irrisolutezza che li rende succubi delle situazioni, vittime dell’altrui prepotenza.
In The art of self-defense, Casey, che con il suo nome da donna attraversa il racconto sempre nel suo aspetto dimesso e sottotono, nei suoi abiti quasi incolore, sembra essere vittima di una colpa che non trova ragione e che lo allontana da ogni relazione paritaria con gli altri. Una condizione che fa naturalmente presagire il suo mutamento e intravedere la sua latente voglia di riscatto. Una grande mano la dà Jesse Eisenberg che lega la sua faccia da bravo ragazzo e i suoi modi naturalmente impacciati al personaggio di Casey sapendo trasferire sullo schermo le sue debolezze congenite, la sua insicurezza nello stare al mondo, la sua incertezza sui comportamenti da adottare. Un tema di non poco interesse, che in verità il film non perde mai di vista e che assorbe in termini narrativi anche i colpi di scena che costellano la storia.
Casey è impiegato in una piccola società. Conduce una vita normale, da single, ha 35 anni e un cane che ama, un bassotto. Una sera per comprare il cibo al cane esce di casa e viene aggredito da una banda in motocicletta. Dopo la lunga degenza in ospedale decide che deve pensare alla sua autodifesa e sulle prime pensa ad un’arma. Poi sceglie il karate. Il suo percorso in questa disciplina sarà curato dal suo istruttore, ma non tutto fila per il verso giusto.
Giocato sul registro di una insistita e rigorosa minimalità narrativa e perfino scenografica, trasformando la periferia della metropoli in scenario quasi apocalittico, disadorno e al tempo stesso gelidamente inquietante, The art of self-defense, uscito negli USA nello scorso luglio, sa cogliere temi e spunti per una più ampia discussione che riguardi un percorso personale di crescita e una presa di coscienza rispetto alla propria esistenza che non sia relegata all’interno di un circolo vizioso fatto di lavoro ed escludente autosufficienza. Casey vive un’esistenza monotona, senza amici e senza legami se non con il suo piccolo cane.
Il rapporto che lega con il suo ambiguo istruttore sembra una salvezza per la sua vita di relazione e qui sarà costretto dagli eventi a scegliere il proprio percorso, tirare fuori i muscoli, quelli veri per dimostrare a tutti, ma per primo a sé stesso qualedebba essere il senso della dignità. Tutto questo avviene esclusivamente dentro i limiti di una analisi solo psicologica dei personaggi ed è per questa ragione che Stearns è un regista di sicuro interesse, come testimonia la sua breve filmografia laddove ha centrato il suo interesse solo su una indagine volta a focalizzare il carattere e la volontà dei suoi personaggi, il che diventa un modo originale, se non in termini assoluti, almeno per le modalità con le quali egli lavora sui propri assunti. Si tratta di prospettive di sguardo e non ultimo, anche narrative, che diventano modalità assolutamente personali e quindi autentiche per raccontare sia il latente disagio dei suoi personaggi, sia gli ambienti nei quali sono immersi, che diventano atteggiarsi esteriore della loro vita interiore. Il suo cinema, sia Faults il film precedente, sia questa seconda prova, affronta il tema di una specie di colpa insita e naturale che può essere espiata attraverso una decisa e tanto profonda quanto assolutamente irrinunciabile presa di coscienza di sé stessi come individui, come portatori di un pensiero che consideri come decisiva la propria forza interiore tanto da risultare essere più forte della forza fisica. L’analisi di un coerente sviluppo di una filmografia è sempre uno strumento utile a saggiare e pronosticare il futuro di un autore, così come la sua complessiva analisi permette di trovare i principi fondanti della poetica. Con il giovane (registicamente) Stearns l’analisi del suo percorso cinematografico diventa forse essenziale e sicuramente di grande utilità. Il suo precedente e citato Faults, già preannunciava con chiarezza i temi attorno ai quali si sarebbe sviluppato il suo cinema, che pur ricordando quello del greco Lanthimos per la sua carica distopica, se ne distacca poiché più aderente ad un reale contingente, piuttosto che forma archetipica di un nichilismo precisamente postmoderno. Stearns sembra appassionarsi all’uomo vivente, piuttosto che ad una elaborazione di tesi e analisi sociali. Sia The art of self-defense, sia Faults confermano questa sua poetica e il primo resta un film necessario per arrivare al cuore di The art of self-defense. Caratterizzato anch’esso da uno stile minimale che si ritrova identico nel secondo, vive di una sua trasparenza luminosa e il tema della colpa e del controllo mentale diventano quasi temi didattici ma senza alcun fastidioso didascalismo. Entrambi i film conservano un lato oscuro, carico di un fascino quasi segreto, magnetico. The art of self-defense, sembra allentare la carica di quel magnetismo, a vantaggio di una maggiore adesione ad una realtà che, sebbene instabile, nella sua monocromatica staticità replica una condizione più strettamente umana, più costretta dentro una specie di immobilità senza soluzioni. Il karate diventa quindi essenziale proprio per la ricerca di quell’equilibrio stabile tra mente e corpo, tra volontà e azione. Casey salva sé stesso e i suoi principi grazie a questa progressione a questa costante applicazione. Casey è come Ansel, il protagonista di Faults, entrambi sono uomini deboli, portatori di un fallimento naturale, incapaci di misurarsi con il potere. Entrambi prendono coscienza di questa loro condizione e lavorano per il riscatto. Ma mentre Casey alla fine resterà davvero libero, il riscatto di Ansel sembra essere sotto tutela della bella e malefica Claire, che nel liberarlo dai suoi fallimenti, lo soggioga rendendolo succube del proprio potere.
Si tratta di temi che Stearns riesce a portare alla superficie con il suo cinema che depura da ogni significato, ogni altra componente che non sia quella della sua spoglia messa in scena, dei suoi desolati sguardi sulle periferie, delle sue luci basse che desertificano ancora di più i paesaggi, gli scenari che ricordano quelli di un De Chirico americano in cui il rapporto delle figure umane con il paesaggio diventa sconfortante. Con questi elementi psicologici e scenografici si misura il cinema di Stearns che si fa inquietante e anche a suo modo inconoscibile, laddove i temi della rivalsa e della colpa, restano sopiti e in parte inspiegati, perché inspiegabili. In quel groviglio che avviluppa le anime e che non può certo, solo in un film, trovare il bandolo della matassa, nonostante la luce che il cinema getta su questi nodi irrisolti che stringono e feriscono le vite di tutti.

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Regia: id.
Regia: Riley Stearns
Interpreti: Jesse Eisenberg, Alessandro Nivola, Imogen Potts, Steve Terada, Philip Andre Botello, Leland Orser
Distribuzione: Chili:
Durata: 104′
Origine: USA, 2019

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2 (3 voti)
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