The Assassin, di Hou Hsiao-hsien

Il grande ritorno di Hou Hsiao-hsien con il suo wuxia azzerato. Cinema perfetto, con la debolezza del sentimento. Miglior regia al 68° Festival di Cannes

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Lo attendevamo da anni, Hou Hsiao-hsien, dai tempi de Le voyage du ballon rouge. Era il 2007. Qualche breve frammento qua e là, Chacun son cinéma, 10+10. Poi più nulla. Un’apparizione in I Wish I Knew di Jia Zhang-ke, in tutta la sua grandezza della sua umile maestria. Ma le sue immagini sono rimaste mute. Fino a riemergere ora, provenienti da un tempo lontano e una distanza siderale.

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Quella di The Assassin – miglior regia al 68° Festival di Cannes – è una storia perfetta per il più classico dei wuxia. Siamo nel IX secolo, nel pieno delle lotte intestine tra l’impero cinese e le province dissidenti. Nie Yinniang, figlia di un generale, è un’assassina di professione, addestrata sin dalla più tenera età da una monaca esperta di arti marziali. Al servizio dell’imperatore, è chiamata a una problematica missione: uccidere il cugino Tian Ji’an, governatore ribelle della provincia di Weibo. Si tratta dell’uomo di cui è da sempre innamorata. Quello a cui sarebbe stata destinata in sposa, se la sua vita avesse seguito un corso normale. Come comportarsi? Eseguire gli ordini e compiere il proprio dovere oppure obbedire alle leggi del cuore?

yun-zhou-the-assassinCome fosse l’Antigone di un altro pianeta, Nie Yinniang compirà la sua scelta. Quasi involontaria, ma l’unica necessaria secondo il corso naturale delle cose. Secondo la propria vocazione. Un po’ come lo stesso Hou Hsiao-hsien incapace di obbedire alle regole del genere. Non gli appartengono. E lui non appartiene a loro. Le osserva dalla sua prospettiva così eccentrica, distante, con l’occhio esule della sua estraneità taiwanese che non può più riconciliarsi con le tradizioni figurative continentali. Perciò il wuxia è azzerato. In The Assassin non c’è alcun gusto per l’invenzione fantastica, per le dinamiche spettacolari dell’azione, per i miracoli elastici e connettivi del montaggio. L’atmosfera del suo universo non consente i salti in assenza di gravità. Eppure non sembra esserci neanche la pesantezza del reale, quella materialità corporea dello scontro, che ci riporterebbe, magari, alla filologia degli stili di combattimento di Xu Haofeng. Il movimento è quasi illeggibile. E ancor più il suo risultato. Chi vince e chi perde?

shu-qi-the-assassinPassati gli anni, Hou Hsiao-hsien sembra essere ancor più fermo nella sua posizione. Dentro e fuori. È immerso con lo spirito nel flusso piano delle cose. Ma il suo corpo è al lato, di canto, nascosto nel buio del fuoricampo, tra i tendaggi, tra gli elementi e gli ostacoli della struttura. E allora i suoi occhi vivono al tempo stesso di amore e lontananza, di nostalgia e di pensiero. Guardano ai protagonisti con il pudore della distanza e con la partecipazione della comunione. Ma al tempo stesso sembrano mancare l’essenza delle cose e le traiettorie precise della trama. Perché la nettezza del reale è dissolta nella tempo, mentre i vissuti si perdono nella complessità inscalfibile della Storia. E l’azione è solo un incidente accessorio, un punto breve, un improvviso stacco di montaggio che sospende per un attimo il lento piano sequenza della vita. Senza interromperlo o inciderlo mai fondo, senza ferirlo a morte, senza alcuna possibilità di determinare un altro senso, un’inversione di tendenza. Al pari delle parole, vale solo come espressione di un desiderio, di un’emozione, di un’idea, di un obbligo. È l’emersione provvisoria di un io, di un’individualità fragile, quella tracciata nella neve di Millennium mambo, destinata a sciogliersi al primo raggio di sole.

Hou Hsiao-hsien, come Tsai Ming-liang, riconosce nel movimento solo un altro aspetto dell’immobile. E perciò ci aspetteremo anche qui di veder apparire il walker, da qualche margine dei suoi stupefacenti campi lunghi. Ma se il pensiero pare concentrato sull’esplorazione dei paradossi di questa dialettica, la sua anima, ancora una volta, è attenta al dettaglio minimo delle singole vite. È tutta dalla parte del divenire, delle esistenze in dissolvenza, dello splendore fragile di Shu Qi, dei corpi frementi, saldi eppur incerti. Il suo è un film bellissimo, di pura meraviglia visiva, di luci che si fondono con la materia della natura. Ma è fuori dalla perfezione dello spettacolo, dal trionfo dello stile. È un cinema che mostra tutti i segni della sua precarietà, tutti i suoi limiti. Cinema al limite.

“La tua tecnica è perfetta. Ma non sei riuscita a liberarti della debolezza dei sentimenti”. Le ultime parole che la monaca Jiaxin rivolge a Nie Yinniang la dicono lunga…

Titolo originale: Nie Yinniang

Regia: Hou Hsiao-hsien

Interpreti: Shu Qi, Chan Chen, Yun Zhou, Satoshi Tsumabuki, Ethan Juan

Distribuzione: Movies Inspired

Durata: 105′

Origine: Taiwan, 2015

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