The Chronology of Water, di Kristen Stewart
L’esordio alla regia dell’attrice statunitense porta con sé ombre cronenberghiane. Impetuoso, irruento, sgraziato ma brucia di passione. Dal romanzo di Lidia Yuknavitch. CANNES78. Un certain regard.

Dall’acqua della vasca a quella del fiume e del mare e della piscina. Il sangue, il trauma, la libertà. C’è qualcosa di profondamente cronenberghiano in questo debutto nel lungometraggio di Kristen Stewart, da cui l’attrice è stata diretta in Crimes of the Future, in una mutazione del corpo che in The Chronology of Water non è a figura intera ma sezionato dei suoi dettagli: i capelli, l’occhio, il viso, le braccia, le gambe. Ci sono poi la paura, la rassegnazione nello sguardo della protagonista, ma anche un’improvvisa rabbia, uno scatto vitale, un urlo improvviso.
Si, l’acqua per Stewart è un elemento fondativo della creazione, come già era emerso nel suo corto da regista, Come Swim. Ma sottolinea anche le continue ri/nascite dopo le molte morti nella stessa vita (sì, si può morire più volte e rinascere anche se respiriamo e il nostro corpo sta bene) ed è il punto di partenza di un cinema che segue nervosamente, a tratti anche istericamente, la propria forma: matite che si spezzano, vomito, cadute dalla bici. In più sovrapposizioni temporali. Ogni inquadratura è potenziale flashback o flashforward, un dettaglio anche secondario lega tra loro le azioni, gli stati d’animo, i turbamenti.
Nella sua opera prima, realizzata a 35 anni, Kristen Stewart (anche sceneggiatrice) porta sullo schermo il romanzo autobiografico di Lidia Yuknavitch e segue la sua protagonista nella sua trasformazione passando da un passato, soprattutto familiare, difficile segnato dalla violenza e dall’alcol e alle aspirazioni come promessa del nuoto, al riscatto nella letteratura dove ha trovato nelle parole una libertà inattesa. La memoria emerge dalla fisicità e dalla parola, che oltrepassa la dimensione verbale e diventa un gesto. Attraverso uno stile volutamente ‘indisciplinato’, The Chronology of Water smembra le forme classiche del biopic che stavolta è pima di tutto un viaggio mentale. Suddiviso in cinque capitoli (Holding Breath, Under Blue, The Wet, Resuscitations, The Other Side of Drowning), il film è allucinato e disturbante, ma trova molteplici punti di contatto con la sua protagonista con cui condivide questa ansia di scoperta. Lo sguardo della regia diventa coincidente con quello di Lidia, un ruolo che sarebbe andato benissimo per la stessa Stewart e che invece lei affida a Imogen Potts, quasi un suo doppio che convive con l’ombra angelica della sorella interpretata da Thora Birch. In più trova una sua bellezza interiore che si manifesta anche in alcune scene che sembrano come ‘incantate’, dalla sua prima lezione al momento in cui è distesa con il compagno vicino le rotaie del treno, un paesaggio dal taglio impressionista.
Stewart ha l’impeto di un pittore. Il suo film è come composto da tanti schizzi di colore gettati sulla tela. Non cerca un proprio stile e neanche un equilibrio. Nel suo caos, anche nella sua confusione, galleggia però in quella dimensione tra la vita e la morte, la memoria e l’aldilà di Il giardino delle vergini suicide. Fa sentire il sangue nella bocca come Flaubert faceva con l’arsenico in Madame Bovary. Per questo è impetuoso, irruento, sgraziato ma brucia di passione, quella in cui c’è una fame di cinema.