The Disciple, di Chaitanya Tamhane

Chaitanya Tamhane torna Venezia dopo la vittoria del 2014 nella sezione Orizzonti. The Disciple presenta l’universo della musica classica indostana in un ritratto del paese tra passato e presente

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La tradizione è fatta di riti, storie, persone e percorsi, quella linea dove si incrocia il passato con il presente, quando la memoria riaffiora nello sviluppo inedito di un destino ancora da scrivere. The Disciple, in concorso alla 77° Mostra del Cinema di Venezia, segue la scia sonora della musica classica indiana, uno spartito ideale per descrivere la vita di Sharad Nerulkar, indottrinato dal padre sulle basi ed introdotto in un universo nel quale per emergere bisogna dedicarsi con pazienza e devozione. Una fede, che rende insufficiente l’espediente tecnico, la sola precisione meccanica, e racchiude il valore dell’esperienza in un trasporto fisico e spirituale.

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Chaitanya Tamhane torna a Venezia qualche anno dopo il riconoscimento ottenuto nel 2014 con Court, presentato nella sezione Orizzonti. La continuità è evidente nel concentrare addosso al protagonista la chiave per accedere all’interno della società, analizzare dei micromondi per sintetizzare una visione più ampia. Il ritratto diventa stavolta più introspettivo, solo incidentalmente apre all’esterno, resta endemico nel raccontare i problemi radicati, ma usa una lente stretta. Ed ottiene in tal modo un cambio di prospettiva drastico ed un maggiore tasso di fatalità, l’accusa pendente sugli uomini per le loro gestioni scriteriate, il peso sclerotico di una legge difficile da abbandonare, finisce in sottofondo. Eppure, nell’andare a ritroso nel tempo verso l’adolescenza di Sharad, la sceneggiatura traccia i motivi di conflitto, mette in discussione un sistema educativo familiare probabilmente troppo rigoroso nel proiettare l’ambizione del padre, incapace di accettare i propri fallimenti. Un’ostinazione genetica insufficiente ad allontanare il sospetto di una responsabilità limitata, indice di un’immaturità esclusivamente personale.

Ma per stessa ammissione del regista, l’intento era soprattutto quello di assecondare una passione, aprire una finestra sulla musica indostana tipica del Nord dell’India a differenza della carnatica, diffusa al sud. Una musica dalla struttura monofonica, una sola linea melodica, ed un’attenzione particolare riservata alla voce. I canti coprono una larga parte dell’intera vicenda, una soluzione abbastanza ostica. Facilmente comprensibile è il carattere religioso delle esibizioni, la ricerca di uno stato di serenità interiore per raggiungere il massimo della performance canora. Disciplina severissima, tramandata da una generazione all’altra, dal maestro al discepolo, un modo per rappresentare la difesa di alcuni valori ormai desueti e mettere in discussione diversi modelli di vita. Dal punto di vista visivo c’è un uso troppo insistito alla stop motion per focalizzare l’attenzione sui ricordi di Sharad, del padre scomparso, di una madre ormai abbandonata, sui dubbi atroci nel timore di una mancanza di talento, di un obiettivo mai veramente agognato. Il sogno postumo di qualcun altro, la linea di frattura tra il rispetto e l’imposizione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.57 (7 voti)
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    Un commento

    • Mi permetto di precisare che la religione non ha a che fare con la musica classica del nord India, a meno che per religione si intenda quella del suono e della sua contemplazione. Molti artisti sono musulmani e usano lo stesso repertorio e le stesse pratiche.