The Future Behind Cinema: la paura dell’immateriale

Appunti dal convegno organizzato negli scorsi giorni dal Museo Interattivo del Cinema di Milano: apocalittici e integrati del digitale, con Salvatores, Canova, Ciprì, Lipari, Cosandey…

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Milano è oggi, forse, la punta di diamante del web italiano. Se è vero che, timidamente, la crisi sta rallentando e ci sono più capitali da investire, questo pare succedere con più forza a Milano dove il mondo del web è protagonista di questa ripresa con il proprio indotto (i dati di fine febbraio 2017 parlano di un’impennata nelle assunzioni milanesi). Ovviamente non è tutto oro ciò che luccica, e la strada è ancora lunghissima, ma la fiducia verso il futuro potrebbe essere riemersa. E proprio il concetto di futuro è stato al centro del convegno indetto dal MIC (Museo Interattivo del Cinema di Milano) dal bel titolo: “The future behind cinema. Images in the age of immaterial” (22-24 marzo scorsi).
Di un convegno di tre giorni sugli stati del restauro dei film d’epoca e le relative implicazioni filosofiche si possono discutere vari spunti, partendo da vari approcci, dal canto del cigno della pellicola, alla paura del digitale. Il digitale visto come mezzo utile ma non amabile, anzi preso quasi come necessario farmaco per continuare a esistere, ricordando i tempi andati.

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Vogliamo partire dalla fine seguendo la nostra passione per i cortocircuiti, cioè partiamo dalla proiezione (in pellicola) del film (girato in 35mm) Nirvana di Salvatores (grande assente/presente grazie a un video messaggio). In effetti quanto a cortocircuiti tra pellicola e digitale, tra ieri e oggi, Nirvana è un esempio perfetto. In esso tale figura è sia la base della trama (Abatantuono/Solo è un virus del videogioco che si ribella al suo destino e pone al creatore Jimmy domande esistenziali) che la base su cui si regge un’opera che tanto manca di cinema quanto abbonda di riferimenti teatrali. I dubbi filmici li troviamo nel rimando solo esteriore a Blade Runner, nell’abbondanza di piani larghi – a ridare la ricca scenografia (e torna Blade Runner) – su primi piani e piani stretti, nel montaggio spesso impreciso sia per attacchi che per continuità, mentre è chiara la base teatrale in quanto a temi e personaggi.
In generale però Nirvana non regge il tempo, e appare oggi come interessante ma debole tentativo da parte di un regista forse ancora troppo analogico.

Tale spaventosa distinzione tra analogico e digitale era stata fatta appena prima dal regista Paolo Lipari che con una piccola lezione alla lavagna aveva scritto due elenchi di aggettivi che caratterizzano i due ambiti. Tra i vari: comodo ed economico il digitale, pesante e macchinoso l’analogico. Come se del digitale si volesse usare solo la “capacità comoda ed economica” per sfruttarne i vantaggi esterni. Nel documentario Meno 35 dello stesso Lipari la parte del leone la fa proprio la nostalgia per la pellicola. Addirittura un intervistato si scaglia senza remore contro la democratizzazione data dal mezzo digitale che permette “anche a chi non ha studiato di esprimersi in modo audiovisivo”. Ci tornava perciò in mente una visione del mezzo

dracula-convegnocinema da regista demiurgo novecentesco, che forte di lauti tesori economici può permettersi di regalare un film al mondo (e la distinzione analogico/digitale del Lipari verteva anche su “cinema come regalo/cinema come lavoro”). Come se non fossimo mai andati oltre la benevolenza aristocratica di Visconti (milanese). Questo però fa chiedere altro. Stanti oggi nell’era del digitale, che è comodo ed economico, e che può essere molto più facilmente controllabile della imponderabile materia della pellicola, non potremmo finalmente produrre altre ansie d’espressione artistica?

Non possiamo proprio permetterci di pensare o produrre altre ossessioni? Altre paure? Altri desideri? Se è vero che con il digitale non c’è scarto tra immaginazione e prodotto finale (ed è comunque opinabile) non possiamo sondare la piattezza digitale per ca(r)pirne la profondità? (E in questo pare essere profetico CB sull’uso dei microfoni). E ancora: non è che il romanticismo della continuità analogica contro la freddezza della contiguità digitale -discussa dal Lipari- può cambiare verso un nuovo tipo di romanticismo? In cui il flusso immateriale vesta una componente romantica di analisi del tempo in cui si vive, e di tentativo di venirne a capo?
Ma la paura dell’immateriale è palese, si vede il digitale come 
un vampiro, il manifesto del convegno docet. Solo Salvatores nel suo video intervento dall’Ansaldo [dove stava provando la regia della Gazza Ladra (…)] chiariva come il digitale sia solo uno strumento da sapere usare nel momento in cui si ha bisogno di esprimersi. Sempre Salvatores parlava finalmente dell’oggettivo salto che il cinema ha fatto verso un futuro di postproduzione, con un affrancamento dalla realtà materiale del set e degli attori per poter ricreare tutto digitalmente.

Il concetto di realtà porta immediatamente all’idea di originale che si differenza dalla copia. Timidamente lo storico del cinema Cosandey, dell’università di Losanna, aveva parlato, nel suo intervento, della copia come avente sussistenza ontologica quanto l’originale (laddove per esempio l’originale è andato perso per cause fisiche). Lo stesso si era chiesto se tale originalità sia sempre un fattore determinante, non dando la risposta ma insinuando almeno un dubbio. Ma la corrente contraria era fortissima, complici il sereno catastrofismo di Canova che parlava di “morte del cinema” – oggi trasformatosi sempre di più in “rituale liturgico simile all’andare all’opera” -, e il lamento di Ciprì che accusava il digitale dell’assenza dell’effetto bugia che tanto voleva Fellini. Questo fa chiederci però se altre bugie non siano possibili. Siamo certi della chiarezza del digitale? La precisione del dato numerico non può risaltare l’opacità di chi guarda? Non potremmo essere invece finalmente arrivati, non solo alla leggerezza tecnologica, ma alla leggerezza filosofica dell’assenza del dato reale materico? La pellicola sparisce, con essa il set, gli attori, ma l’idea rimane. Immateriale e pronta ad essere catturata, qualunque flusso essa abiti. Non abbiate paura. 

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