The Height Of The Coconut Trees, di Du Jie
Nella sezione Newcomers del Asian Film Festival in corso a Roma, il regista cinese crea un’opera affascinante, la sua prima in Giappone, e con una regia chiara ma forse fin troppo ambiziosa

Una ragazza che conta alla rovescia, come fosse un mantra, un ragazzo con una valigia e un’altra donna che fotografa in continuazione, senza però mai sviluppare quelle foto, ma anche un vecchio mocio, un elmetto da lavoro rosa e un anello trovato in un pesce.
The Height of The Coconut Trees è un film pieno di elementi che lo spettatore deve mettere insieme per capire, come se fossero degli indizi. La prima opera giapponese del regista cinese Du Jie racconta, attraverso la vita quotidiana di due coppie, il dolore delle persone vicine a chi commette suicidio. Questa riflessione si amplia per parlare di addii, sensi di colpa, rimpianti e dei fantasmi che popolano il nostro mondo. La protagonista è una ragazza che lavora in un negozio di animali ed è profondamente innamorata del suo fidanzato Aoki; i due progettano di sposarsi e di fare un viaggio.
The Height of the Coconut Trees, che è stato presentato al Festival di Busan e che sarà questa sera sugli schermi dell’Asian Film Festival di Roma, si muove avanti e indietro nel tempo, facendo sì che i personaggi quasi si sfiorino, senza però incontrarsi veramente. La regia rende questa idea attraverso sovraimpressioni e, nella trama, attraverso una sorta di viaggio condiviso e frammentato. Il caso gioca una parte centrale nelle storie raccontate. Lo spazio magico, fatto di momenti, riflessi di vetri, luoghi abbandonati e bizzarri ritrovamenti, si incontra/scontra con il lungo seminario sulla prevenzione dei suicidi e con i momenti di dolore dei protagonisti. In un film dolente che però si avvale di una fotografia luminosa e di momenti anche felici, i quali permettono ai personaggi di andare avanti. L’opera vuole in qualche modo toccare il tema del suicidio in maniera delicata e positiva, tirando in ballo il libero arbitrio. Questa tematica, ampiamente trattata nel cinema nipponico, prende note inedite.
Il punto di vista condiviso del film tra la protagonista femminile e un altro personaggio rimane diviso fino al finale, in un dialogo rivelatore, che però non riesce a darci tutti gli elementi di un disvelamento.
Du Jie, che nel suo paese era un regista di blockbuster come No Man’s Land, Savage e Moon Man, è alla ricerca di un’autorialità che la sua regia raffinata e perfettamente in linea con la storia riesce a cogliere pienamente. Tuttavia, l’eccessivo tentativo di rendere il tutto misterioso e complesso fa sì che l’opera, che verte anche su alcuni elementi di un certo cinema francese di Jacques Rivette e di Eric Rohmer, perda il controllo di sé stessa per mantenere un’aura di mistero, girando attorno alla trama un tentativo forse squilibrato di complessità, un’opera che parte decisamente come un melodramma, ma tratti vorrebbe virare addirittura sull’horror-fantasy.