The Image Hunter: Giacomo Agnetti ci racconta Hitnes

The Image Hunter è stato presentato al Festival CInema e Ambiente di Avezzano, dove abbiamo incontrato il regista. Un viaggio tra la natura e l’arte che ridefinisce il concetto di identità

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“Dipingere la realtà è un’illusione”, dice lo street artist romano Hitnes, mentre lo seguiamo, sulle tracce dell’illustratore e ornitologo John James Audubon, in giro per gli Stati Uniti, dietro la macchina da presa di Giacomo Agnetti.
Lo vediamo di spalle, mentre la sua voce fuori campo si racconta; e ci racconta un viaggio dai mille volti, senza mai mostrare il proprio.
Dai Brown Pelicans della Florida agli Ospreys nel Kentucky, i due esploratori inseguono ciò che resta della natura documentata dal grande illustratore ottocentesco. Audubon era, già ai suoi tempi, un militante della conservazione ambientale. Aveva avuto il merito, non solo di documentare la fauna di un paese, ma di farlo con un approccio che non restasse inquadrato nella “sterilità” scientifica. Gli uccelli di Audubon vivevano di singolarità e personalità: nei suoi disegni riusciva a dar voce a delle storie. Eppure, era un cacciatore. Si rifaceva a un metodo rinascimentale, cacciando le sue prede e disponendo le carcasse su assi di legno, inchiodandole con lunghi aghi che permettessero di tracciare le esatte proporzioni.
The Image Hunter, ossia il cacciatore di immagini, incarna dunque i due artisti: Audubon, a caccia di tutte le specie di uccelli americani, e Hitnes, in cerca di ciò che resta degli uccelli illustrati da Audubon.
Ma c’è di più.
Anche Giacomo Agnetti, il regista del film, diventa un silenzioso cacciatore di immagini. Osservando Hitnes che si muove nella natura meno contaminata degli Stati Uniti, a tratti abbiamo quasi l’impressione di vederlo in volto, l’artista romano rintanato nel suo anonimato. Cogliamo pochi tratti: il suo profilo, la sua silhouette, ma mentre la sua voce si racconta, ci sentiamo di conoscerlo e riconoscerlo ogni inquadratura di più.
Il documentario diventa una vera “caccia del reale”, che, però, vuole restare sospesa in una dimensione sognante, d’illusione. O forse, in un’epoca nella quale l’identità è un dato, rimette addirittura in questione il concetto stesso di “identità”.
“Anche io sono un uccello”, dice Hitnes, mentre lo vediamo sospeso a dipingere sui muri delle città statunitensi. Libero, si mostra quanto basta per donarci la sua essenza, la sua individualità, senza il peso di un’identità che gli tarperebbe le ali.
In questo cercare di dare un volto all’artista, Agnetti ci mostra tante facce dell’America; dal popolo di New Orleans alle autostrade della Florida. Viene da pensare al cineasta James Benning, in particolare al film Landscape Suicide, dove il landscape è vero e proprio testimone della violenza circostante. Ma Hitnes e Agnetti si spingono più in là, dipingendo su quel landscape, sempre testimone, le creature che ne fanno ancora parte, ai margini, in pericolo, nascoste nei pochi luoghi che restano incontaminati. In quest’operazione, “creano uno spazio”, o lo ricreano, per la natura minacciata dalla violenza dell’industrializzazione. I murales di Hitnes cercano quell’apparentemente impossibile compromesso tra la natura e l’uomo. E quest’unione la ritroviamo anche nelle musiche, fedeli al territorio, composte da Agnetti e Hitnes nelle case coloniche dove sono stati ospitati, dove spesso trovavano strumenti musicali. Un montaggio sonoro che unisce armoniche, sedie a dondolo e raganelle.

Abbiamo avuto modo di intervistare il regista Giacomo Agnetti al Festival Cinema e Ambiente di Avezzano, dove il documentario è stato proiettato in anteprima.

Quanto era centrale la rivelazione dell’identità di Hitnes nella tua idea iniziale?

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Nella mia idea iniziale non era tanto cruciale rivelare l’identità di Hitnes. Lo era, invece per lui. Tante’è che a un certo punto ha ripensato alla cosa e quindi abbiamo rivisto tutto il montaggio per eliminare tutte le scene in cui lui compariva e si vedeva chiaramente in volto. Abbiamo scelto una via di mezzo, un vedo-non vedo.

Il titolo vive, però, di questa doppia valenza, “cacciatore di immagini”…

Eh sarebbe stato interessante ma in realtà il titolo viene da lui, da Hitnes. Il film lo abbiamo costruito insieme. Infatti è stata una produzione molto difficile, è pericoloso fare un film in cui il protagonista è anche produttore insieme a te. The Image Hunter calzava sia la carriera di Audubon sia quella di Hitnes, tutti e due cercavano immagini ed erano produttori di immagini… il documentario è una barca di immagini.

Cosa ne pensi di tutti questi street-artists anonimi? Perché è importante salvaguardare il loro anonimato?

Inizialmente anche io me lo domandavo. Poi, Hitnes mi ha fatto capire che tutti hanno avuto un inizio di carriera in cui i murales erano per la maggior parte illegali. Si partiva dai treni, tutti partono con i tag, con la firma, poi dopo pian piano evolvono. Però comunque tutti hanno questo senso di colpa rispetto al passato in cui hanno fatto cose di cui non sono sicuri se dovranno poi dovranno pagare o renderne conto a qualcuno. Poi però diventa un pò un gioco, come se uno fosse un supereroe. Tu sei quello e, invece, quando sei nella vita normale ti puoi permettere di non essere mai associato a quel tipo di arte. E io penso che abbia molto senso e che sia un ragionamento estremamente saggio in questo periodo storico.

Pensi che negli anni sia cambiata la street art e il suo potere politico?

Penso sia cambiata molto, non tanto per gli artisti. Gli artisti sono sempre stati più o meno impegnati. È cambiata soprattutto per le persone, perché hanno cominciato a farla propria ed a utilizzarla.
Sono sempre di più le istituzioni che chiamano artisti per rinnovare un quartiere, oppure gli abitanti stessi di un palazzo che chiamano uno street artist per lavorare. È diventata una sorta di intelligenza collettiva; è diventata parte dell’intelligenza collettiva di tutti. Poi come dice Hitnes nel film, quando tu fai un murales, non fai un disegno, crei un luogo. E penso che questo sia proprio il punto chiave della street art.

C’è un personaggio nel film che dice che “l’arte è essere colpiti da qualcosa”, sei d’accordo con questa definizione?

Assolutamente, soprattutto in questo periodo in cui siamo inondati da immagini ed è difficile essere preparati su tutte le correnti artistiche, su tutti i movimenti, in tutti gli stati, tra l’altro. Quindi, a un certo punto, l’unica cosa che puoi fare è cercare di restare connesso con le tue emozioni e dire “Quest’opera mi risveglia qualcosa!”. Già quando riesce a fare questo significa che un’idea, l’idea dell’artista, è arrivata fino in fondo, in maniera molto lineare, molto pulita, senza troppi rimaneggiamenti. E quando un’idea è così pura, di solito, ti impatta.

A cosa stai lavorando adesso?

Adesso sto lavorando su un documentario sulla musica punk in Patagonia, suonata da persone che hanno origini Mapuche e che vivono nel quartiere povero di Bariloche, una delle città più grandi della Patagonia.
Incredibilmente, lì è come se il tempo si fosse fermato: ancora adesso è molto difficile andare a vedere un dj seguito da un vasto pubblico. È molto più facile andare ad un concerto punk dove c’è un grandissimo pubblico. E lo fanno senza essere registrati perché sono molto poveri, però, per autopromuoversi si fanno le cover a vicenda. E questo ha sviluppato una socialità e un’attenzione per quel tipo di movimento e quel tipo di tematica, enorme. I due movimenti principali adesso in quel luogo sono la trap e il punk. E spesso ci sono prima i concerti punk e poi, dopo, i concerti trap. Sono fasce di età diverse, però, è incredibile vedere quanto vivace sia e quanto pubblico ci sia ad assistere a questi eventi.

Conosci bene questo territorio?

La Patagonia la conosco bene. È la settima volta che vado, per diversi mesi, e ogni volta cerco di fare un progetto, un documentario, un podcast. Gli altri due documentari che ho fatto, uno era su una specie che si chiama ciprés de las Guaitecas, che è la conifera che cresce più a sud del mondo e ha un legno molto duro che non marcisce mai, o comunque molto lentamente. S’intitola Il popolo del cipresso. E l’altro, Patagonia via Radio, è sull’utilizzo dei programmi radio per comunicare con le aeree più remote, che è una cosa interessantissima della Patagonia. In un programma come può essere Radio Deejay, tutto si ferma per dieci minuti e in quei dieci minuti vengono letti i messaggi per le comunità che vivono in posti remoti che possono solo ascoltare.
Attraverso questa modalità loro sanno che dalle 16:00 alle 16:10 si possono mettere lì ad ascoltare la radio e ricevere un messaggio che forse è per te.

Quanto pensi sia importante diffondere attraverso il cinema le tematiche e le urgenze ambientali?

Non credo che il cinema sia il mezzo migliore. Il cinema spesso si rivolge a persone che sono già formate, che hanno più di vent’anni. Ma quando hai vent’anni hai già le tue dinamiche e i tuoi equilibri. Per quanto sia difficile, varrebbe la pena concentrarsi molto di più su prodotti dedicati all’infanzia, oppure sull’esperienza diretta. La cosa migliore e più efficace attualmente è prendere le nuove generazioni e farle vivere a strettissimo contatto con la natura, in modo che capiscano la natura e che la natura capisca queste nuove generazioni, perché noi ormai siamo causa persa. Io lo dico, per quanto mi costi, perché a me piace far documentari, ma mi rendo conto che per quanto io possa fare il documentario migliore del mondo non andrò mai ad intaccare le abitudini di una persona, perché la routine è fortissima.

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