The Informer – Incontro con Andrea Di Stefano

The Informer – tre secondi per sopravvivere, nelle sale dal 17 ottobre: abbiamo incontrato il regista Andrea Di Stefano per parlare di come è stato realizzato il film e del suo lavoro con gli attori

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Io non credo in Dio, ma credo in Marco Bellocchio“, con queste parole l’attore e regista Andrea Di Stefano commenta la possibile candidatura all’Oscar per Il Traditore, il film dell’autore che lo ha lanciato come interprete nel cinema internazionale con Il principe di Homburg.

Siamo seduti a tavola nel ristorante della Casa Del Cinema di Roma e abbiamo appena assistito alla proiezione di The Informer – Tre secondi per sopravvivere, seconda opera dietro la mdp di Di Stefanonelle sale italiane dal 17 ottobre.

L’atmosfera è quella informale di un pranzo tra amici e il tono della conversazione, tra un boccone e l’altro, è  allegro e scherzoso, nonostante si parli di argomenti che di allegro hanno ben poco.

Infatti il film, che è basato sul romanzo svedese Tre Sekunder (Roslund & Hellström) tratta di Mafia, narcotraffico, violenza nelle carceri e di un sistema assai corrotto, che è quello in cui si muovono informatori e FBI.

Per realizzare The Informer, Andrea Di Stefano ha compiuto un attento lavoro di ricerca all’interno delle carceri americane e sul rapporto tra informatori e FBI, ed è proprio questo a rendere il film diverso dai classici action dal sapore anni ’90.

Il cinema di questo genere ha abituato lo spettatore a determinate dinamiche in determinate situazioni, ad esempio: se tra due detenuti inizia una rissa, gli altri carcerati faranno rumore intorno a loro, si schiereranno facendo il tifo come intorno a un ring.

Invece, come alcuni carcerati e guardie penitenziarie hanno spiegato a Di Stefano, succede l’esatto opposto: se in un carcere due detenuti si scontrano, gli altri ne restano completamente al di fuori, comportandosi come se non sentissero né vedessero niente, in totale omertà.

Dopo aver raccontato alcuni aneddoti narratigli da ex detenuti e agenti dell’FBI, e averci rivelato che entrambe le categorie adorano raccontare le proprie storie, l’attenzione torna sul lato registico. L’insegnamento più grande, Di Stefano rivela di averlo ricevuto da Arthur Penn: “una volta mi disse che avrebbe potuto insegnarmi a girare un film in un pomeriggio, ma è l’emotività che deve legare le scene.

E infatti è l’emotività il motore del film e ciò che rende questi personaggi credibili, facendo sì che lo spettatore patteggi per loro o contro di loro.

Anche il rapporto tra Erica Wilcox (Rosamund Pike: Gone Girl), l’agente dell’FBI al comando dell’operazione e Pete Soklow (Joel Kinnaman, The Killing, Altered carbon), l’informatore al centro della storia, viene trattato in modo particolare: entrambi i personaggi sono caratterizzati da emozioni in un certo senso estranee ai loro ruoli.

A rendere Pete Soklow interessante non è la sua straordinaria bravura a organizzare

piani di fuga in pochissimo tempo o la sua capacità nella lotta, ma il suo avere costantemente paura di perdere la propria famiglia, il suo vacillare e quasi arrendersi quando l’FBI sembra averlo abbandonato, ma ritrovare la forza di lottare e tentare il tutto per tutto grazie alle parole della moglie al telefono, il suo essere in realtà un uomo fragile che vorrebbe solo uscire da un gioco troppo duro a cui è stato costretto a prendere parte.

A fare da controparte al personaggio di  Kinnaman, la Wilkox che, inizialmente, sembra interessata solo alla buona riuscita dell’operazione, e nella parte finale viene tormentata dal rispetto della parola data, anche a discapito della propria carriera e degli ordini del suo superiore (Clive Owen), tanto da definire Soklow “un uomo innocente” le cui colpe sono conseguenza di ciò che lei e l’FBI gli hanno chiesto di fare.

Ma come si creano personaggi del genere? Quanto è merito del regista e quanto dell’attore?

Probabilmente proprio perché prima di essere regista, è un attore, Andrea Di Stefano pensa sia importantissimo ascoltare gli attori sul set, perché possono portare molto al personaggio, specialmente quando si tratta di grandi attori, come per esempio gli era successo sul set di Escobar con Benicio Del Toro.

Giunti ormai al caffè, un’ultima domanda su Bellocchio e sul cinema italiano: Di Stefano riconferma la sua ammirazione per il regista, poiché lo ritiene un vero artista, tra i pochi a riuscire, dopo tanti film e dopo aver raggiunto la fama, a non cadere nel narcisismo e ci confessa che il suo sogno sarebbe tornare a lavorare in Italia come regista invece che come attore e realizzare un film che parli dell’Italia e dei problemi del Bel Paese.

Con una stretta di mano a ognuno dei commensali, si congeda da questo pranzo, lasciandomi la sensazione di un amico in visita a Roma dall’America e che ora ritorna oltreoceano con il suo carico di storie interessanti, che aspettano solo di essere raccontate.

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