The Kiev Trial, di Sergei Loznitsa

Il film ripercorre, con materiali di archivio, il processo di Kiev del 1946, contro un gruppo di soldati nazisti e i loro collaboratori, accusati di crimini di guerra in Ucraina. Fuori Concorso

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Nel gennaio del 1946, a Kiev si tiene un processo contro un gruppo di ufficiali e soldati nazisti e i loro collaboratori, per crimini commessi nei villaggi ucraini durante la Seconda guerra mondiale. Un’altra Norimberga, insomma, in cui vengono alla luce e condannate “le atrocità commesse dagli invasori fascisti nel territorio della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina”. Eccidi, torture, fucilazioni sommarie, violenze contro gli ebrei, un intero catalogo di orrori. Alla fine, vengono condannate a morte per impiccagione quindici persone.

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Sergei Loznitsa ricostruisce l’evento sulla base di materiali di archivio rari e inediti, che danno conto degli interrogatori e delle testimonianze, fino al giudizio e all’esecuzione. E compone un film perfettamente speculare a The Process, in cui si ripercorreva un processo intentato del regime sovietico contro un gruppo di ingegneri ed economisti sospettati di tramare con l’Occidente ai danni della patria. Lì si trattava di una farsa, di una gigantesca e pretestuosa messinscena creata ad arte dalla visione paranoica del potere, obbligato, per sua natura, a individuare capri espiatori, alla repressione cieca e sorda. Qui, invece, siamo di fronte a crimini “veri”, colpe “reali”, che sono l’ennesima declinazione dell’orrore e dei buchi neri dell’animo umano.

Ma al di là degli aggettivi possibili, non c’è grande differenza. Si parla in ogni caso di rappresentazioni della storia, di retoriche processuali, di sentenze inappellabili. Dell’esercizio implacabile di un’autorità, che sia legittima o meno. Ciò che cambia, semmai, è l’atteggiamento degli imputati. Tanto erano terrorizzati quelli di The Process, completamente annichiliti, piegati psicologicamente, dall’assurdità delle trame ordite dagli accusatori, tanto, invece, appaiono monocordi e impenetrabili i nazisti di The Kiev Trial. Quasi indifferenti sia al male commesso che alla punizione estrema. E in questa disparità di reazioni, già risulta evidente, dal punto di vista di chi guarda, una differenza di responsabilità. E chi guarda è innanzitutto Loznitsa, che non nasconde, ovviamente, la diversa valutazione storica e morale. Al di là dell’apparente neutralità, a garanzia della correttezza procedimento, anche lui compie un’operazione di giudizio, in cui hanno un peso determinante i presupposti di partenza, la predisposizione ad assegnare ragioni e torti. Ed è chiaro che qui, nei soprusi subiti dall’inerme popolazione ucraina, proietta le ombre del presente. L’orrore dell’invasione.

Ma non è questo il punto. Il vero nodo del discorso è che il suo cinema, ormai ancorato a un metodo, rischia di rinchiudersi in una ripetizione ossessiva, fino a diventare una specie di celebrazione funebre. L’archivio da riportare alla luce è il materiale su cui leggere, in proiezione, il tempo presente. Ed è tutto un ripulire, risonorizzare, rimanipolare (proprio nel senso letterale del termine) fino a trovare una nuova levigatezza e chiarezza dell’immagine. È un’operazione di chirurgia cinematografica che, nonostante tutto, va in direzione di una leggibilità ben definita, riducendo i margini di ambiguità dei materiali. In alcuni momenti, a compensare c’è la complessità compositiva del lavoro sui materiali o del montaggio che articola il discorso, come in The Natural History of Destruction (visto all’ultima edizione di Cannes). Qui, invece, in The Kiev Trial, anche per l’urgenza delle motivazioni intime, tutto appare dritto, liscio, inscalfibile. Persino compiaciuto.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
1.67 (3 voti)
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