The Maiden, di Graham Foy

Un esordio interessante quello del giovane regista che guarda con affetto ai suoi giovani personaggi e alla loro insanabile solitudine. Giornate degli Autori

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In questo nuovo, ma non nuovissimo, ritratto della provincia americana che è The Maiden di Graham Foy, presentato alle Giornate degli Autori, il giovane regista sembra dichiarare con sufficiente esplicita evidenza delle immagini, quanto il suo cinema tragga ispirazione da quegli autori che hanno già esplorato quello stessi periferico mondo giovanile a cominciare dal primo Soderbergh o dalle magnifiche incursioni di Gus Van Sant a cominciare dal pregevolissimo Elephant. È proprio dagli insegnamenti di quel film che The Maiden parte, assumendoli come principi guida nel racconto e, più in generale, nell’impianto complessivo del film. È in quella stessa ottica che Foy intende fare i conti con il disagio e la solitudine giovanile in quella avvolgente e malefica periferia dell’impero, luoghi dimenticati segnati solo da infinite strade ferrate.
The Maiden è la storia di tre giovani che vivono lontani di ogni metropoli, per i quali il tempo è solo la consumazione di una gioventù sfuggente, è il vuoto di un tempo che resta infruttuoso e velenoso, è il senso di solitudine che matura anche durante l’elaborazione del lutto per l’amico che muore vittima di un gioco nel quale si sfiorano la follia e il senso di immortalità che esiste in ogni sfida alla morte.
Foy consuma, nel ritmo cadenzato e lento delle immagini e delle lunghe sequenze, il tempo della gioventù dei suoi personaggi, lavorando sugli spazi vuoti di un orizzonte tanto asfittico quanto infinito nel quale perdersi e nel quale i suoi giovani antieroi smarriscono ogni punto di riferimento.

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Un esordio interessante quello del giovane regista che guarda con affetto ai suoi giovani personaggi e alla loro insanabile solitudine. Il suo racconto si fa a tratti freddo dentro l’annullamento di uno sguardo lontano e perduto, ma è questa cadenza che evoca una specie di trascendenza terrena nella quale si può anche restituire vita ai morti e riempire il vuoto del tempo della perdita. Un film meditativo fatto di presenze evanescenti e di evidenti assenze come quella degli adulti che sono esclusi da questo insolito racconto di altrettanto inconsueta formazione. Un film raccolto e sussurrato che in un silenzio pesante e mai pacificatorio, dilata i vuoti ma non colma di vita le esistenze dei giovanissimi protagonisti. Un ritratto che mostra una pacata disperazione in un paesaggio nel quale si annichilisce ogni sentimento che resta soffocato e inespresso. Un cinema che trae linfa da quegli indipendenti e solitari autori che hanno tracciato i confini incerti della avvolgente e letale provincia che nessuno sguardo può davvero dominare, quel luogo pericoloso destinato a diventare il capolinea di ogni speranza.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
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