The Mastermind, di Kelly Reichardt

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La regista gioca con i generi con grande consapevolezza, li sabota a ritmo di jazz e crea una storia divertente, che non viene schiacciata dall’allegoria politica o dallo stile. CANNES78. Concorso

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Non si può dire che JB, il protagonista di The Mastermind interpretato da un magnifico Josh O’Connor, sia una grande mente criminale. D’altronde, se il colpo al museo per aver successo debba sperare nella sonnolenza della guardia, che non passi nessuno nella mostra di quadri astratti, che l’altra guardia all’ingresso si scansi, diciamo che non sei sicuramente Lupin. Quando le cose vanno di male in peggio, glielo rimprovera perfino il ricettatore che gli sta togliendo il bottino dalle mani, elencandogli una serie di errori grossolani. È chiaro quindi come il nuovo film di Kelly Reichardt, che torna in concorso a Cannes dopo il passo falso di Showing Up, sia un titolo fortemente ironico. La regista gioca infatti con l’heist movie, si diverte a far fallire continuamente tutti i piani del suo ladro d’arte e del genere stesso. Prova a prendermi viene ribaltato e messo in contatto col suo orizzonte da cinema indie americano, compassato e pensoso, per poi dargli continuamente delle scosse di defibrillatore, fino al finale strozzato. Come accade nel capolavoro di Steven Spielberg, anche qui Kelly Reichardt gioca con il tempo.

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Non dimentichiamoci, infatti, che Kelly Reichardt è anche montatrice di tutti i suoi film (eccetto il suo esordio), è abituata alla sua manipolazione diretta. In The Mastermind questo lavoro viene potenziato dalla splendida colonna sonora di Rob Mazurek, cornettista e compositore fondamentale della scena jazz contemporanea. È la musica a far scattare il film, a spezzare la sua inerzia, a lanciarlo su dei piani inclinati su cui non può che accelerare e poi obbligarlo a fermarsi, a prendere aria. Il volto di O’Connor in questo è perfetto per restituire questa posatezza pronta ad accendersi, ma anche una sorta di smarrimento in sé stesso. Perché l’esistenza di JB è tutta rivolta verso di sé: vive da mantenuto a casa dei genitori di sua moglie con i suoi due figli, che molla irresponsabilmente in giro più volte. Non ha complici, ma solo persone da usare. Ed è qui che il film svela la sua natura profondamente politica.

In Meek’s Cutoff, Reichardt raccontava la storia western di un uomo che trascinava la sua comunità nel deserto, senza un piano in mente e senza ascoltare gli altri, trovandola rilevante per l’America di Bush del 2010. Sembrerebbe la stessa direzione intrapresa per The Mastermind. L’individualismo esasperato di JB si muove negli anni ’70 secondo le traiettorie degli Stati Uniti contemporanei: un ammasso di promesse non mantenute, di rapporti sfruttati a proprio esclusivo interesse, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze. Così, JB e Terry (Alana Haim in versione sfinge, quasi sempre silente e giudicante) sembrerebbe quasi una versione più umana della reale coppia Trump-Melania. Eppure, l’allegoria riesce a non essere mai schiacciante nei confronti del film grazie alle prove dei suoi grandi interpreti, ma anche alla maestria della sua regista. Riesce a dare alla materia narrativa momenti di sospensione e di leggerezza, la fa galoppare e andare al passo, muovendo The Mastermind come la musica jazz che lo anima, sinuosa e impossibile da classificare.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)

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