The Mastermind: Kelly Reichardt e il cinema come forma di evasione
La regista di Showing Up e Old Joy è tornata con un film che mescola generi diversi, tra l’heist movie e il semi-noir. Josh O’Connor è un antieroe borghese alle prese con un rapina senza speranze
È uscito il 30 ottobre scorso l’ultimo film di Kelly Reichardt, The Mastermind, un’opera che gioca con le disavventure di un improvvisato rapinatore tra quadri e opere d’arte, sullo sfondo di un’America in piena era nixoniana e dei primi scossoni sociali a seguito della guerra in Vietnam. La regista, già autrice di film dal sapore di piccole storie ordinarie, con protagonisti outsider della società, o di come li definisce stesso la Reichardt di personaggi che “stanno al perimetro”, torna con un lungometraggio che decostruisce ancora una volta il mito del sogno americano, tra conflitti di classe, situazioni border-line e province abbandonate. Nel cast Josh O’Connor (La Chimera, Challengers), Alaina Haim (Licorice Pizza) e John Magaro. Il film avrà presto una distribuzione MUBI e vanta le composizioni musicali del jazzista Rob Mazurek.
E per carpire l’anima profondamente autoironica e riflessiva di The Mastermind, bastano le parole della Reichardt, che a proposito del titolo definisce il “film come una scommessa finita male e il suo drammatico epilogo già scritto”. La storia del film infatti si può riassumere come l’impresa folle di un disoccupato del Massachusetts nel 1970 di rapinare una serie di quadri astratti di un museo locale. E il fatto di non preoccuparsi minimamente delle conseguenze lo porta a una serie di situazioni rocambolesche, di certo “non la migliore idea del mondo”, sottolinea la regista.
Kelly Reichardt sceglie di ambientare nuovamente un suo film nel mondo dell’arte, già affrontato prima con il suo ultimo Showing Up del 2022. Sulla scelta la regista commenta: “non c’è stata una volontà precisa di collegare i due film l’uno all’altro, piuttosto mi piaceva immergermi nel mondo dell’artista Arthur Dove”. The Mastermind prende spunto da un evento realmente accaduto nel 1972. La Reichardt aggiunge: “Tempo fa lessi un articolo che ricordava l’anniversario di un celebre furto d’arte e di alcuni adolescenti che ne rimasero involontariamente coinvolti. Si trattava di un gruppo di ragazze del Massachusetts che si ritrovarono con la loro auto a bloccare la fuga dei rapinatori. Quando lo lessi pensai subito ‘devo farci un film’, e così è nata l’idea”.
E se è vero che talvolta i film migliori nascono da storie vere, specie quando si tratta di furti d’arte, sicuramente possiamo aspettarci un racconto cinematografico dell’impresa – questa riuscita – avvenuta lo scorso 19 ottobre al Louvre di Parigi. A tal proposito l’autrice precisa: “The Mastermind non è un classico film sulle rapine, con inseguimenti e incidenti d’auto – anche se Josh O’Connor lo fa nel film e lo fa anche bene! – ho preferito, invece, concentrarmi su tutti quegli aspetti che in un normale film sulle rapine verrebbero tagliati: sono andata a scovare nei dettagli della sua vita, e in tutti quegli ostacoli che si frappongono fra lui e il suo obiettivo”.
Sulla parabola esistenziale dell’antieroe ebanista James Booney, detto JB, interpretato da Josh O’Connor, la Reichardt dice: “penso che gli spettatori riescano facilmente a empatizzare con JB poiché ha una personalità difficile da penetrare, un po’ come tutti, e poi dimostra anche di non avere un’idea chiara di sé. E questo lo rende più umano”. Poi, aggiunge: “è un disperato che affronta un viaggio impossibile perché sa di non avere più neanche la terra sotto i piedi. Non ha un posto in cui sentirsi a casa, né tantomeno la sua famiglia con cui non ha un bel rapporto”. E sull’interpretazione dell’attore conclude: “Quando scrivevo il film mi sono resa conto che il protagonista doveva saper maneggiare diversi registri, e avevo bisogno di un attore in grado di farlo. Ho ammirato Josh in tanti film e ho pensato che lui fosse la persona adatta per questo ruolo”.
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Un altro aspetto interessante del film è caratterizzato dall’estrazione sociale del suo protagonista, tema su cui si concentra anche la regista: “La sua provenienza lo rende un privilegiato della società, in quanto uomo bianco, con padre giudice e che non ha bisogno di trovare un lavoro. Eppure, non riesce a trovare uno scopo nella vita. E così si lancia in una rapina insensata, convinto comunque che il “sistema” funzionerà per lui, di sicuro”. E forse in questo aspetto si annida la critica centrale del film: una depressione diffusa nella società americana degli anni Settanta, soprattutto nelle classi più abbienti, epifenomeno di un cambiamento drastico in divenire della società.
The Mastermind poi occupa un posto ben preciso nella filmografia della Reichardt, essendo un film che narra anche l’importanza della fuga come strumento di evasione rispetto a una realtà compromessa. La regista dunque torna ai temi del viaggio – come in Old Joy, Wendy and Lucy e First Cow – e lo fa anche analizzando il suo paese, in un momento (quello a cavallo tra gli anni ’70 e ’80) in cui l’America è segnata dai movimenti per la pace, delle femministe e della guerra in Vietnam, la prima a essere “vista con i propri occhi” in tv dagli americani. La Reichardt afferma: “Mi piace pensare che James sia appena uscito dall’età della leva obbligatoria in Vietnam. Riesce a percepire i segnali di una società che sta cambiando e che ciò che accade nel mondo non lo riguarda davvero, e così si preoccupa soltanto della sua vita. E basta”. E ciò racconta bene quella sensazione di chiusura dal mondo e dalla politica che ha caratterizzato da un certo momento in poi non solo la vita americana ma anche quella occidentale. E JB non è altro che una rappresentazione, e nelle parole della regista: “James in fondo vuole solo sapere che tipo di persona è. O forse non vuole saperlo realmente e così ha come unica possibilità di scappare via”.
























