The Old Oak, di Ken Loach

Sarà a volte anche semplicistico, ma è disperato, senza speranza e arriva dritto al cuore. Con un finale bellissimo che forse è un sogno e mostra il mondo come dovrebbe essere. Concorso.

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Forse il mondo non è un posto poi così di merda dove vivere. Anche se tutto sembra andare storto in una cittadina mineraria del Nord dell’Inghilterra pieno di barriere neanche troppo invisibili e porte chiuse come quelle delle case dei residenti che hanno paura che cambi qualcosa ogni volta che si affacciano fuori di casa o quella del pub gestito di TJ dove c’è una zona che non si può usare. C’è già una netta separazione tra il dentro e il fuori già all’inizio del film con il vetro del pullman che divide un gruppo di persone immigrate in fuga dalla guerra in Siria e i residenti che non ne vogliono sapere di accoglierli. Ed è un pò la stessa linea di separazione che divide il cittadino dalla burocrazia infernale dell’amministrazone britannica come nel caso del falegname costretto a ricorrere all’assistenza sociale in Io, Daniel Blake o le nuovi condizioni lavorative dove le persone arrivano ad arrivare fino a 14 ore al giorno in Sorry We Missed You.

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Ken Loach e il fedele sceneggiatore Paul Laverty ripartono proprio da lì. Il luogo dove si svolge la vicenda, ambientata nel 2016, è un altro posto di conflitti. La k dell’insegna del pub che deve essere aggiustata mostra già lo stato di abbandono. Gli abitanti cercano di dare un senso alla loro vita oppure si rinchiudono ancora più in se stessi. TJ è il proprietario del pub The Old Oak frequentato spesso dagli stessi, pochi clienti, da anni. L’arrivo dei profughi siriani crea subito tensione nel posto. Tra loro c’è anche Yara, una ragazza che parla benissimo inglese ed è appassionata di fotografia e lega subito con TJ. Insieme, tra mille difficoltà, cercheranno di rilanciare la comunità locale organizzando una mensa per i più poveri. Ma gli ostacoli sulla loro strada saranno molti.

Forse il mondo non è poi un posto così di merda dove vivere. Ci sono possibili punti d’incontro, dialoghi inaspettati. Ma anche le persone che si sono frequentate da anni che sono diventate diverse sotto i nostri occhi e ce ne siamo accorti solo all’improvviso. O anche i ragazzi con i cani aggressivi che non li controllano. Nel modo in cui è mostrata la morte del cagnolino c’è tutta l’intimità, il rispetto di un cineasta che sa come e cosa filmare. Lì c’è il punto di vista esatto e la necessaria distanza. Morale e umana prima di tutto. Non si vede il modo come è stato ucciso ma solo il suo urlo di dolore. C’è poi una spiaggia che è il punto-limite. È il luogo di fuga, di disperazione, ma dove avvengono anche improvvisi miracoli. A 86 anni, per Ken Loach, un altro mondo non è più possibile. Ogni iniziativa di solidarietà sembra destinata al fallimento. Per questo The Old Oak è un film durissimo, disperato, dove ogni tanto arriva una buona notizia (la famiglia di Yara viene a sapere che il padre scomparso è ancora vivo) ma dove l’umanità è anche cambiata ed è spietata come nel caso del video con il telefonino girato a scuola e rivisto dai clienti più razzisti del bar.

L’indignazione del cinema di Loach è tale che magare molte volte il suo cinema rischia di essere schematico nella contrapposizione tra il bene e il male. Però a questo punto si porta anche dietro tutta la vita e le storie delle persone. Le foto di Yara e soprattutto quelle appese sulle pareti dei minatori, con il famoso sciopero del 1984, raccontano molto dei protagonisti, del loro passato e della storia della cittadina mineraria. E il volto vissuto di Dave Turner nei panni di TJ può idealmente sovrapporsi con quello di Dave John di Io, Daniel Blake e Kris Hitchen di Sorry We Missed You. Con un primo piano su di loro Loach riesce già a raccontare parte della storia del film. In più, in un dialogo c’è tutto il senso autentico del suo cinema quando Yara sta per andare a visitare la cattedrale locale che “non appartiene alla chiesa ma agli operai che l’hanno costruita”. Sarà anche semplicistico ma questo è un film che arriva direttamente, che colpisce duro, che lascia spiragli ma forse non ha speranza. Lo straordinario finale, tra i più emozionanti di tutto il suo cinema, è forse un sogno. Di armonia, pace e bellezza, come quello di Don Giulio in La messa è finita quando si gira dopo la funzione e sorride sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi. Si, The Old Oak pensa che un altro mondo non è possibile. Ma Loach, in un film anche di spietati tradimenti, ci fa vedere come dovrebbe essere. Per questo il finale è un abbraccio verso tutti noi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
3 (4 voti)
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