The Orbital Children, di Mitsuo Iso

L’eccessiva propensione al worldbuilding priva la storia di profondità narrativa. La serie sacrifica il pathos, per trasmettere con coerenza una singolare visione di corporeità futuristica. Su Netflix

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A metà strada tra il biopunk e il mecha anime, The Orbital Children si presenta, sin dall’incipit, come punto culminante di una serie di riflessioni che attraversano da tempo l’animazione giapponese (e il cinema live-action), come ultimo tassello di un percorso che riflette continuamente sugli esiti dell’integrazione/incorporazione di elementi inorganici nella corporeità biologica degli individui. Un processo invasivo solitamente indagato nelle sue manifestazioni più destabilizzanti – se non propriamente deumanizzanti, come nei casi di Tsukamoto, Otomo, Fukui, così come in Cronenberg e Verhoeven – ma che Mitsuo Iso interpreta qui in termini più apertamente positivi, alla luce di una conciliante normalizzazione del progresso bio-cibernetico. Ambientando la storia in un futuro prossimo dalla configurazione ultra-tecnologica – dove i corpi dei giovani protagonisti Touya e Konoha, unici sopravvissuti del progetto di procreazione umana sulla superficie lunare, presentano una naturale compenetrazione con innesti informatici in virtù di un adattamento immediato alle onde gravitazionali di superfici diverse – il regista/animatore configura un’immagine di corporeità futuristica che contrasta (in parte) con le derive distopiche di tante narrazioni cyborg.

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Deputando buona parte dell’intreccio alla delineazione delle (tante) regole, caratteristiche e singolarità dell’ambiente in cui si iscrive la storia – i personaggi soggiornano su una base spaziale in attesa del rientro sulla terra, compromesso da un drammatico incidente interstellare con una cometa – The Orbital Children delinea un racconto eccessivamente macchinoso, interessato perlopiù alla costruzione del mondo diegetico. Un approccio estremo, che in virtù di una maggiore coerenza narrativa, rischia di sacrificare quegli elementi strutturali (percorso e background dei personaggi, identificazione spettatoriale con i protagonisti, trasporto emotivo verso il racconto) che la narrazione filmica dovrebbe attivare. Alla natura introduttiva della prima porzione di racconto, corrisponde però un secondo segmento più dinamico, con la serie che trova finalmente la chiave interpretativa con cui far funzionare ciò che fino a quel momento era stato solo anticipato. Seppur The Orbital Children fatichi nel restituire un’incidenza emotiva anche alle sequenze più drammatiche, completamente prive di pathos e gravitas, è in questa seconda frazione che la riflessione sulla corporeità cibernetica assume una centralità paradigmatica. Mentre il racconto devia verso scenari metafisici, il corpo automatizzato dei protagonisti perde progressivamente di massa per configurarsi come veicolo, come strumento di connessione inter-dimensionale, dove la sovrapposizione di passato, presente e futuro, insieme a quella di memoria e anima, diviene l’ultimo, salvifico baluardo attraverso cui certificare la propria umanità.

La propensione al worldbuilding (la costruzione del mondo narrativo) e alla delineazione di animazioni “realistiche” a cui Iso ci ha abituato – evidente nella regia di Dennō Coil (2007), o nel suo lavoro di key animator in Mobile Suit Z Gundam, Ghost in the Shell e Evangelion – diviene in The Orbital Children l’interesse estetico primario, il magma creativo da cui sorge qualsiasi scelta registica. Una dichiarazione d’intenti che sacrifica la profondità di narrazione, in favore di un racconto che trasmette la sua singolare immagine di futuro esclusivamente sul piano figurale.

 

 

Titolo originale: Chikyūgai Shōnen Shōjo
Regia: Mitsuo Iso
Voci: Natsumi Fujiwara, Azumi Waki, Knesho Ono, Chinatsu Akasaki, Yumiko Kobayashi, Mariya Ise
Durata: 193′
Distribuzione: Netflix
Origine: Giappone, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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