The Plague, di Charlie Polinger
Joel Edgerton tiene a battesimo l’esordio di Polinger, l’estate di una squadra di pallanuoto di 13enni il cui spogliatoio diventa la versione teen di Full Metal Jacket. CANNES78. Un certain regard

Lo sceneggiatore Charlie Polinger attinge dai suoi diari personali, tenuti durante un campo estivo piuttosto simile a quello in cui si svolge il suo film, per il suo esordio da regista nel lungometraggio: The plague racconta l’estate dei 13 anni rifuggendo qualsiasi tono nostalgico alla Stand by me – delle escrescenze kinghiane rimane soltanto la caratterizzazione dei bulletti, capaci di quella crudeltà sociale sottile ed implacabile della pre-adolescenza. Il rosso Jake ha trasformato infatti gli spogliatoi e il dormitorio della squadra di pallanuoto nel suo regno, tenendo sotto controllo la sua cricca di fedelissimi e allo stesso tempo tenendo lontani gli sfigati del campus attraverso la subdola fake news dell’esistenza di una piaga ad altissimo livello di contagio, che colpisce a suo dire ovviamente i più deboli del gruppo, i nuovi arrivati, o gli “strani” (si tratta in realtà di un classico eczema da spogliatoio, anche se forse la sua natura è causata in maniera ben più violenta, come scopriremo).
Il protagonista Ben deve cercare di sopravvivere fino alla fine del suo percorso nel campo estivo (l’immancabile festa in stile prom night) tentando di farsi accogliere dalla conventicola di Jake, e insieme di difendere Eli, il solitario portatore della fantomatica piaga, costantemente bullizzato. E poi ci sono le ragazze, ovviamente, la squadra femminile del nuoto sincronizzato, ma sono delle apparizioni lontane, da rievocare nelle notti in cui le pulsioni erotiche iniziano a farsi sentire – e gli adulti? Non pervenuti: l’allenatore della squadra (Joel Edgerton, anche produttore, che sembra quasi essere lì come segno di rimando al suo bel film da regista di qualche anno fa, Boy Erased) non ha, lo capiremo presto, in alcun modo gli strumenti né l’autorità per tenere a bada la situazione, e i genitori sono voci al telefono che non accorrono nemmeno per le emergenze.
Sì, perché Polinger trasforma dopo pochissime sequenze il suo film in una sorta di allucinato Full Metal Jacket versione teen (riferimento esplicitato dalla sequenza della punizione notturna in dormitorio, sostanzialmente gemella a quella del film di Kubrick), complice soprattutto l’incredibile performance dei giovani attori, Everett Blunk come Ben, novello soldato Joker, e Kenny Rasmussen nei panni di Eli, in grado di corrucciare lo sguardo sull’abisso proprio come “palla di lardo”: su tutti, gli occhi e il sorrisetto impassibile di Kayo Martin, il capetto dei bulli.
Polinger sfrutta al massimo il peso dell’acqua come strumento di ingrandimento ed indagine su questi corpi colti nel momento della traumatica trasformazione della pubertà, corpi a metà come i giocatori di pallanuoto che restano sempre spezzati dalla linea della vasca, non più bambini non ancora uomini, e tutto il film si affida a segni liquidi come il sangue, il pus dell’acne che inizia a segnare le guance, le docce di gruppo come vero istante in cui si stabilisce la gerarchia sociale in contesti di squadra.
The plague racconta così in maniera chirurgica i meccanismi tribali ancora in atto nei contesti a predominanza maschile, e allo stesso tempo attraversa gli androni, la mensa e i cortili segreti del campus con un livello di aderenza epidermico, irrequieto, mai edulcorato, una resa dei conti senza sconti con quelle estati in cui hai capito davvero che tipo di adulto saresti diventato, e da che parte stare.