The Prosecutor, di Donnie Yen

È un tributo al potere divistico della star hongkonghese e alla sua capacità di trasfigurare i linguaggi di un film grazie alla sua sola, e sempre totalizzante, presenza scenica. Dal Far East 2025

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OPEN DAY FILMMAKING & POSTPRODUZIONE: 23 maggio

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BORSE DI STUDIO per LAUREATI DAMS e Università similari

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SPECIALIZZAZIONI: la Biennale Professionale della Scuola Sentieri selvaggi

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Il corpo-cinema di Donnie Yen, in quanto testimone e portavoce di un complesso e stratificato universo filmico fatto di specifici segni, codici e linguaggi ben definiti nel tempo, risulta sempre totalizzante, in qualsiasi narrazione venga calato. Data la storia che la fisicità dell’attore – e qui regista – sino-hongkonghese si porta dietro, tra ferite, percosse e performance corporee al limite della trascendentalità, la sua presenza non può che trasfigurare tutto ciò che gli ruota attorno, e rielaborarlo in qualcosa di nuovo che sia smaccatamente in linea con le peculiarità su cui si fonda il suo straordinario divismo attoriale. Ed è alla luce di queste capacità mutanti, con cui Donnie Yen trasforma un racconto fino a renderlo lo specchio della sua stessa poetica artistica nonché dell’immagine divistica a cui è associato dal pubblico internazionale, che anche un dramma procedurale come The Prosecutor non può che arrivare ad innervarsi dei codici più emblematici dell’action hongkonghese contemporaneo. Tanto che il film, ogni qualvolta mette in scena le arringhe giudiziarie o disegna le parabole di corruzione tipiche dei courtroom drama, non fa che posizionarle al confine con le sequenze di scontro/combattimento. Come se non esistesse soluzione di continuità tra le due – non più separate – dimensioni.

Questo “ribaltamento” improvviso degli schemi narrativi del dramma procedurale non è confinato solo ad un livello linguistico, ma viene sublimato sia nella cornice iconografica di The Prosecutor, che in quella puramente drammaturgica. Il personaggio a cui presta qui il volto Donnie Yen, Fok Chi-ho, è infatti un ex agente di polizia, ora divenuto un pubblico ministero. E in quanto tale, ha il diritto e il dovere di individuare di volta in volta quelle prove che portino i presunti criminali ad essere assicurati alla giustizia di Hong Kong. Ma davanti all’anomala confessione del giovane Ma Ka-kit, accusato di aver trafficato un quantitativo davvero elevato di droga, l’uomo prende paradossalmente le difese del ragazzo, convinto che sia una mera vittima dell’onda di corruzione che sta dilagando nel sistema giudiziario hongkonghese. Un’azione con cui il protagonista, e quindi lo stesso Donnie Yen, rovescia la sua immagine di “difensore dello stato”. Sulla scia di quel che accade – guarda caso – ai codici del dramma procedurale, ora transitati verso i lidi esplosivi dell’action per mezzo della sola presenza scenica del leggendario attore-filmmaker.

Già in John Wick 4, se ci pensiamo, era il confronto con Caine (cioè l’artista marziale cieco interpretato da Donnie Yen) a ridestare Keanu Reeves dalla narcotizzante spirale di uccisioni ed esecuzioni mortifere proprio grazie alla natura “artigianale” del fisico del performer hongkonghese, e all’analogicità che lo contraddistingue. Un fenomeno, questo, che allontana – non a caso – il film di Stahelski dagli orizzonti del videoludico per traghettarlo di forza in quelli “novecenteschi” del cinema, e che viene in parte ripreso e reiterato da questo The Prosecutor: disposto ad aprirsi alle traiettorie ipercinetiche dell’action-movie, malgrado il suo vestito principale sia quello del courtroom drama.

Ma questo travaso di forme e linguaggi non risulta mai veramente incongruo: anzi, è eseguito da Donnie Yen con grande ricercatezza, tanto che nel corso del film i due sentieri si intrecciano fluidamente tra loro, senza mai apparire dissonanti né disarmonici. E se è pur vero che le motivazioni degli avvocati corrotti – cioè i “villain” di The Prosecutor – risultino talvolta confuse e siano spesso affrontate in maniera approssimativa, la presenza del divo hongkonghese funge sempre da collante tra le varie anime del racconto. A testimonianza di quanto l’attore, insieme a pochissime altre star a livello mondiale, riesca ancora a tramutarsi nell’elemento catalizzante di una narrazione filmica, fino ad allinearne le coordinate ai codici del suo intramontabile divismo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)

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