The Residence, di Paul William Davies

Il mistero, da strumento di tensione, diventa pretesto meccanico e non riesce ad evitare alcune fragilità strutturali tipiche del modello Netflix. Otto episodi sono troppi

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OPEN DAY FILMMAKING & POSTPRODUZIONE: 23 maggio

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SPECIALIZZAZIONI: la Biennale Professionale della Scuola Sentieri selvaggi

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C’è qualcosa di teatrale in The Residence, e non solo per l’impianto scomposto in scene del suo intreccio, ma per la capacità di trasformare la Casa Bianca in un palcoscenico. Paul William Davies (Scandal; For the People) confeziona un giallo convenzionale che Liza Johnson e Jaffar Mahmood coreografano più che dirigere.

La residenza presidenziale americana diventa una scatola scenica: asettica e satura di sguardi e movimenti di macchina pianificati e geometrici. Fin dal chi è stato? iniziale appare chiaro che il mistero è secondario rispetto alla narrazione stessa e che i personaggi sono in cerca della versione migliore più che della verità. Il dubbio non è solo sulle persone ma sul linguaggio stesso. Ogni parola è uno svelamento e ogni testimonianza una confessione. Così il sospetto ruba la scena all’indagine e il gossip all’investigazione.

La detective Cordelia Cupp, interpretata da Uzo Aduba (Orange Is the New Black), è in primis un’appassionata di birdwatching. Non è una risolutrice discreta alla Hercule Poirot e nemmeno una fine conoscitrice dell’essere umano come Miss Marple. Ricorda piuttosto Benoit Blanc, collega di piattaforma, ma con una dose di chiacchiera in stile universitario fuori sede. Cupp preferisce lasciare che sia il mistero a svelarsi da solo, un po’ come quando si concede lunghe pause per attendere che qualche volatile le si manifesti.

I tic, il tono agitato e poi solenne e i momenti di stallo sono indizi non del caso ma dello stile di una serie che si compiace della sua stessa inconcludenza. In questo sta la sua forza (commerciale), ma anche la sua trappola.

Perché se da un lato The Residence prova a proporre alcune riflessioni, dall’altro non riesce ad evitare alcune fragilità strutturali tipiche del modello Netflix. Otto episodi sono troppi. La serie tende a ripetersi, diluire e appesantire. Il mistero, da strumento di tensione, diventa pretesto meccanico e si ha la sensazione che la storia stia girando a vuoto, trattenuta più da esigenze di minutaggio che da logiche drammaturgiche.

Sebbene questo sembri estendere il bacino di pubblico, è proprio qui che The Residence perde. Il continuo avanti e indietro temporale, oltre a quello della macchina da presa, trasmette un senso di stagnazione.

Nei suoi limiti la serie ha raggiunto il suo obiettivo se non altro a livello di popolarità, essendo tra le più viste del 2025. La Casa Bianca popolata da figure secondarie che ambiscono al potere in assenza del potere stesso (il Presidente non è quasi mai presente e non ha mai il polso della situazione) diventa una metafora dello stato della serialità contemporanea: orfana di centro e ambiziosa di apparenze. Un giallo che non vuole essere risolto, un racconto che non si interroga più su chi è stato? ma preferisce il cosa può raccontarci chi era presente?

Sarebbe allora utile completare la metafora e rispondere ad una terza domanda: chi/che cosa è stato ucciso? La fluidità del racconto? L’illusione del controllo? L’interesse dello spettatore? E poi, lo spettatore è innocente?

 

Titolo originale: id.
Creata da: Paul William Davies
Regia: Liza Johnson e Jaffar Mahmood
Interpreti: Uzo Aduba, Giancarlo Esposito, Susan Kelechi Watson, Jason Lee, Ken Marino, Edwina Findley

 

Distribuzione: Netflix

 

Durata: 8 Episodi, 47-87′ a episodio
Origine: USA, 2024

La valutazione della serie di Sentieri Selvaggi
2
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